La lunga corsa verso le elezioni per la Casa Bianca è iniziata, ma forse Frank Underwood, per la prima volta nella sua carriera politica, si troverà a correre da solo. Frank e Claire, vale a dire il Macbeth e la Lady Macbeth della politica americana (la politica fittizia della fiction TV, ovviamente), non sono più la coppia in grado di lavorare fianco a fianco per raggiungere l'obiettivo comune, sostenendosi a vicenda e sempre pronti a correre l'uno in soccorso dell'altra e viceversa, a prescindere da piccoli rancori e occasionali infedeltà.
Capitolo 39, episodio finale della terza stagione di House of Cards, si conclude infatti con il fatidico annuncio della First Lady: la decisione di abbandonare, seduta stante, il marito Frank. Non un autentico colpo di scena, in realtà, ma piuttosto l'inevitabile effetto di un deterioramento, lento ma inarrestabile, nel ménage fra i coniugi Underwood. Un ménage che, all'inizio di questa stagione, appariva più granitico che mai, ma che evidentemente non ha retto al peso - talvolta logorante - del potere.
Frank Underwood alla Casa Bianca
Dopo aver esordito, il 1° febbraio di due anni fa, sul servizio streaming Netflix, House of Cards si è imposta da subito come uno dei prodotti di maggior valore della narrativa televisiva. Basata sull'omonimo romanzo di Michael Dobbs, che nel 1990 aveva già ispirato un thriller politico di ambientazione britannica in quattro episodi per la BBC, la serie firmata da Beau Willimon ha trasformato la poco conosciuta Netflix in una delle nuove forze in gioco nell'ambito delle produzioni per il piccolo schermo, grazie a una valanga di recensioni eccellenti, al prestigio consolidato di due comprimari del calibro di Kevin Spacey e Robin Wright e della 'benedizione' delle varie associazioni di premi annuali: le prime due stagioni di House of Cards hanno raccolto complessivamente quattro Emmy Award su ventidue nomination e due Golden Globe, come miglior attore e miglior attrice, per Spacey e la Wright. Un consenso pressoché unanime, insomma, che questa terza stagione appena conclusa pare aver conservato a livello di spettatori e, almeno in parte, anche dal punto di vista della ricezione critica.
Il terzo 'volume' dell'epopea degli Underwood, tuttavia, ha segnato un significativo cambiamento rispetto a quanto visto in precedenza. Se le due stagioni precedenti costituivano la cronaca della scalata al potere di Frank fino al massimo vertice delle istituzioni americane, l'insediamento su uno shakespeariano "trono di sangue", la terza stagione è caratterizzata da un'importante variazione di prospettiva: Frank e Claire, adesso, si trovano alla Casa Bianca come inquilini principali, e gli sforzi di entrambi sono volti a concretizzare quel potere, tanto faticosamente acquisito, a dispetto di un apparato politico impantanato in un sostanziale immobilismo e di una situazione finanziaria disastrosa per il popolo americano. Ed è proprio a quei dieci milioni di cittadini disoccupati che il Presidente Underwood si rivolge, fin dal primo episodio della stagione (Capitolo 27), promettendo loro un nuovo posto di lavoro in virtù di un progetto denominato America Works: una proposta di legge che potrebbe diventare l'irrinunciabile eredità della presidenza Underwood, a scapito però dell'intero sistema previdenziale, e che sarà 'riciclata' come primo punto del programma di Underwood in vista delle Elezioni Presidenziali del 2016.
Tutti gli uomini del Presidente
Alle sottili astuzie, ai melliflui corteggiamenti, ai subdoli raggiri attuati dal Frank Underwood conosciuto negli scorsi anni, nella terza stagione si sostituisce un volto diverso: quello autoritario, inflessibile, spesso ai limiti del dispotismo. Quanto più l'antieroe impersonato da Kevin Spacey si presentava come un individuo astuto e machiavellico, tanto più il Presidente Underwood pare soggiogato da un delirio di onnipotenza (un senso di hubris, si direbbe in una tragedia greca) che gli impedisce di scendere a compromessi e, al contrario, lo porta ad adottare il pugno di ferro con tutti i suoi collaboratori, perfino i più vicini e fidati; e potrebbe essere proprio tale delirio di onnipotenza uno dei temi chiave della terza stagione di House of Cards. Nel corso degli episodi assistiamo ad un graduale esacerbarsi dei rapporti fra Underwood e i propri seguaci: dal Capo di Gabinetto Remy Denton (Mahershala Ali) alla deputata Jackie Sharp (Molly Parker), lanciata come "specchietto per le allodole" nella gara per la nomination del Partito Democratico e poi, nell'undicesima puntata, insofferente al punto di voltare le spalle ad Underwood ed offrire il proprio sostegno alla sua principale rivale, l'incrollabile Heather Dunbar (Elizabeth Marvel).
Ed è appunto l'infuocata sfida elettorale, il serratissimo testa a testa fra Underwood e la Dunbar, a catalizzare l'attenzione negli episodi conclusivi, nonché ad imporsi come uno dei fili narrativi destinati a proseguire nella quarta stagione (già confermata da Netflix). Il racconto di queste tredici puntate, del resto, è stato focalizzato quasi esclusivamente sulla figura di Frank Underwood e di sua moglie, sul loro ruolo istituzionale e sulle rispettive scommesse politiche, mentre è stato ridotto al minimo lo spazio riservato a molti personaggi secondari: una scelta, quest'ultima, che ha tenuto in sordina alcuni subplot della serie, come le inchieste condotte dalla giornalista del Wall Street Telegraph Kate Baldwin (Kim Dickens). Ecco, se nella terza stagione di House of Cards è possibile rintracciare un punto debole, questo potrebbe essere ricondotto all'assenza di una solida "controparte" ai coniugi Underwood, com'era stata invece la cronista Zoe Barnes di Kate Mara nella prima stagione. Fin troppo presente, invece, il personaggio di Doug Stamper (Michael Kelly), ex braccio destro di Underwood, disposto a tutto pur di rientrare nelle sue grazie, come scopriremo nello scioccante episodio finale: le sequenze con Rachel Posner (Rachel Brosnahan) portano House of Cards nei territori del thriller, e il modo in cui gli autori ci suggeriscono l'esecuzione della giovane, con un'ellissi dal significato inequivocabile, ha un effetto a dir poco agghiacciante.
Da Lady Macbeth a First Lady
Il motto secondo il quale "dietro ogni grande uomo c'è sempre una grande donna" trova il suo esempio lampante nella parabola di Claire Underwood, principale alleata del marito Frank, ma tutt'altro che disposta ad accontentarsi del titolo inutilmente decorativo di First Lady. Mentre Frank si batte con il Congresso per far approvare America Works, Claire tenta di intraprendere una carriera politica personale, scontrandosi però con l'aperta ostilità del Senato e dovendo ricorrere all'aiuto di Frank per essere nominata Ambasciatrice dell'ONU. Come già nelle precedenti stagioni, Claire non viene mai relegata a semplice deuteragonista, rivelandosi invece il cuore pulsante della serie, al centro di alcuni dei momenti più emozionanti di House of Cards. Assolutamente superbo, a tal proposito, il Capitolo 32, che vede Claire impegnata in un sofferto faccia a faccia con Michael Korrigan (Christian Camargo), un attivista per i diritti degli omosessuali rinchiuso in un carcere russo per aver infranto la legge antigay. Al suicidio di Korrigan, il quale si impicca al soffitto della sua cella per non essere costretto ad accettare l'abiura impostagli come condicio sine qua non alla sua liberazione, seguirà la reazione appassionata di Claire, che frantuma ogni cautela diplomatica per accusare in mondovisione il Presidente Viktor Petrov (Lars Mikkelsen), palese alter ego di Vladimir Putin.
A partire da questo episodio, House of Cards punta sempre più l'obiettivo sul matrimonio tra Frank e Claire, su quel delicatissimo equilibrio che permette ai due di restare uniti in una relazione che ormai ha davvero poco a che fare con l'amore. "Una gelida fusione di due elementi universali, identici nel peso, uguali nella forza": così definisce il loro matrimonio Thomas Yates (Paul Sparks), lo scrittore ingaggiato da Frank a fini propagandistici, il cui libro assumerà invece il ruolo di cartina di tornasole del rapporto tra il Presidente e la First Lady. Una simbiosi in cui è Frank ad occupare, invariabilmente, la posizione dominante, mentre Claire assumerà la consapevolezza di una dipendenza che ormai è incapace di sostenere. Un malessere che la serie riesce a far trapelare in maniera egregia, con notazioni sottili ma inequivocabili, fino al crollo della donna e alla sua fatidica presa di coscienza: la coscienza di non voler continuare ad essere soltanto la parte di un 'tutto' nel quale Claire ha cessato di riconoscersi. L'ultimissima sequenza di House of Cards ci mostra la First Lady allontanarsi da suo marito per abbandonare la Casa Bianca. Frank non è mai stato così solo come in questo momento. Eppure siamo convinti che, anche nei prossimi capitoli, Claire manterrà un'importanza fondamentale all'interno del "castello di carte"...