La persona più importante nella vita di Richard Linklater è (come spesso capita) sua madre Diane, un'educatrice professionale che ha lavorato con ragazzi di diversa età, da quelli che frequentano le high school fino a quelli che occupano i banchi dei college. Per il futuro regista fu vitale crescere vicino ad una persona del genere, come dimostrò la sua reazione quando dovette superare un momento di grave sconforto a seguito di una diagnosi traumatica per il suo sogno di intraprendere una carriera da giocatore di football. Richard, infatti, orientò tutti i suoi sforzi verso un'analisi interiore, che poi, tramite il cinema, riuscì ad allargare all'animo umano e al suo rapporto con il destino, facendone un leitmotiv per la sua carriera.
Il grande tema della filmografia è infatti proprio questa indagine su larga scala, che Linklater mise alla prova anche attraverso soluzioni audiovisive estreme per quanto riguarda lo storytelling, come quando seguì una giornata di alcuni sbandati in Slacker (considerato manifesto della Generazione X) oppure quando raccontò in 12 anni la storia di Boyhood. Indagine che si preoccupa del microcosmo personale, ma che ha sempre avuto l'ambizione di guardare al contemporaneo, anche quando ha prodotto commedie apparentemente disimpegnate come School of Rock o, appunto, Hit Man.
A ben vedere, infatti, questa ultima pellicola, seppur partendo da una incredibile storia vera, tramite un adattamento che guarda alla love story e poggia le proprie basi su di un'impostazione da one man show (non a caso una delle penne del film è il protagonista, Glen Powell), si dimostra, dopo una riflessione più approfondita, avere una incredibile portata teorica. Linklater crea infatti una storia filosofica, che parla di maschere, identità e autopercezione guardando al panorama contemporaneo, in cui questi elementi sono sempre più fondanti.
Anche due (macro)indizi fanno una prova
Il primo (macro)indizio sull'essenza teorica della pellicola di Richard Linklater lo dà proprio il suo titolo. Hit Man infatti si riferisce ai sicari su commissione, una figura mitica e usata nella letteratura e nel mondo cinematografico al punto da essere considerata esistente nella visione popolare. Credenza sbagliata, come il film stesso ci tiene a dire, sconfessando in qualche modo il rapporto con la realtà e aprendo la strada verso un funzionamento per archetipi.
La prima scena ci mostra un Glen Powell irriconoscibile che parla ai suoi studenti parafrasando Nietzsche, citando l'uomo e il suo destino, con la necessità di lottare per trovare la propria strada. Ecco il secondo (macro)indizio, che lega questo film a tutti gli altri del regista, e ci parla della necessità universale di emanciparsi dai binari designati per diventare qualcos'altro. Si preoccupa di dircelo anche attraverso i discorsi del protagonista con la sua ex, creando un dualismo di personaggi che, sommati, potrebbe ricordare proprio mamma Diane.
Il suo professore diventa un Hit Man, ovvero qualcosa che non esiste in Natura, qualcosa di completamente astratto, come se il reale entrasse in un'altra dimensione semantica, dove rivestirsi con abiti completamente inediti e, in un certo senso, accedendo ad una libertà immaginativa non raggiungibile nella realtà. Un modo per ricostruire se stessi da zero e così cambiare successivamente anche la propria vita nel "mondo vero". Qualcosa che accade quotidianamente al giorno d'oggi quando ci viene chiesto di costruire un nostro profilo in una cornice di significato artificiale. E non parliamo per forza di social network, nonostante siano un ottimo esempio.
La questione dell'identità
Ed è qui che Hit Man fa ancora un passo avanti, inserendo l'incognita della realtà che viene a bussare alla porta, mostrando l'altra faccia della medaglia sia di una storia d'amore talmente grande da non poter essere più racchiusa in una stanza e sia di un vissuto che nulla ha a che fare con la nuova strada intrapresa dal protagonista della pellicola. Non solo un modo per creare il solito (ma sempre divertente) meccanismo ad equivochi, ma anche per parlarci del rapporto tra identità e immagine costruita.
Un dilemma pirandelliano che torna spesso all'interno della carriera di Linklater e che si concentra su di un interrogativo nella sua formulazione piuttosto semplice, ma straordinariamente complesso nella sua rilevanza: chi siamo veramente? Siamo il risultato del nostro fato? Siamo quello che gli altri ci insegnano ad essere? Oppure abbiamo la possibilità di essere coloro che vogliamo diventare? Magari un professore potrebbe persino diventare un sicario professionista, scoprendo che quello che crede sia il suo vero Io reale non corrisponda alla sua ragion d'essere.
Attraverso questo processo Hit Man arriva ad annullare qualsiasi ordine gerarchico o qualsiasi idea di cosa possa essere vero o falso, mostrando il profilo di una umanità liquida, che può divenire somma delle tante esperienze, ma, soprattutto, può divenire somma di tante identità nella misura in cui nessuna è veramente finta. Il rapporto tra noi stessi e l'immagine che possiamo costruire è, a volte, talmente forte da sorpassare il destino, ora più che mai visti gli strumenti che abbiamo, arrivando a divenire la stessa cosa. L'importante è rimanere fedeli a se stessi perché, altrimenti, c'è il rischio di smarrirsi. In fondo l'homo liquidus è l'espressione migliore dell'uomo del XXI secolo, ma la questione dell'identità è un discorso ancora aperto.