"Oh sì, ho capito: stai cercando di farmi uccidere". Occhiali da sole, polo nera e pantaloni di lino bianchi, Harvey Keitel scoppia a ridere quando, al Filming Italy Sardegna Festival, gli domandiamo qual è il ricordo che conserva con maggiore emozione delle sue esperienze sui tanti set italiani che ha frequentato nel corso della sua carriera, tra Il mondo nuovo di Ettore Scola e Un complicato intrigo di donne, vicoli e delitti di Lina Wertmüller passando per La sposa americana di Giovanni Soldati, Due occhi diabolici di Dario Argento e George A. Romero e Youth - La giovinezza di Paolo Sorrentino. "Facciamo così, scopri chi fa i migliori spaghetti aglio e olio e sarà lui il mio regista preferito", prova a sviare l'attore per non fare torto a nessuno.
Classe 1939, Keitel non ha intenzione di fermarsi. Lo abbiamo visto recentemente ne Il tatuatore di Auschwitz, miniserie diretta da Tali Shalom Ezer e scritta da Jacquelin Perske basata sull'omonimo romanzo di Heather Morris, in cui interpreta la versione adulta di Lali Sokolov, un ebreo slovacco deportato nel campo di concentramento di Auschwitz. È lì che l'uomo riceve l'ordine di tatuare gli avambracci degli altri detenuti con i numeri di identificazione. "Non ero lì quando è accaduto, ma in un certo senso è come esserci stati per il modo in cui è stata raccontata quella storia".
E dal primo agosto vedremo l'attore anche in Paradox Effect, thriller diretto da Scott Weintrob, in cui divide lo schermo con Olga Kurylenko. Il film è incentrato sulla storia di un'ex tossicodipendente (Kurylenko) che cerca di ricucire il rapporto con la figlia. Ma quando assiste a un omicidio è costretta a collaborare con l'assassino per scongiurare le minacce di uno spietato boss del crimine (Keitel).
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La comprensione degli altri e il metodo dell'Actors Studio
Una carriera iniziata nel 1966 con un ruolo non accreditato ne Gli eroi di Hogan, serie tv della CBS che in chiave ironica raccontava la vita di un gruppi di prigionieri di guerra durante la seconda guerra mondiale, che lo ha poi visto debuttare l'anno successivo sul grande schermo in Riflessi in un occhio d'oro di John Huston dove era una semplice comparsa. Ma in quello stesso anno inizia la collaborazione lunga oltre cinquant'anni con Martin Scorsese per il quale reciterà, dal 1967 al 1976, in Chi sta bussando alla mia porta, Mean Streets, Alice non abita più qui e Taxi Driver. Una leggenda del cinema statunitense che, ancora oggi, influenza schiere di aspiranti attori."Ho la sensazione che mi avvicini di più a me stesso e quindi alla comprensione delle altre persone", confida Keitel quando gli domandiamo cosa significhi per lui avere un tale ascendente sugli spettatori.
Un attore della vecchia scuola. Uno dei tanti che negli anni Cinquanta si iscrisse all'Actors Studio."Ne faccio ancora parte. È una tecnica, ma è più comunemente conosciuta come metodo. Ha avuto origine a Mosca, in Russia, molto tempo fa e passo dopo passo è passata alla storia come il metodo Stanislavskij", sottolinea Keitel che, in quegli anni, ha studiato con Stella Adler e Lee Strasberg e del laboratorio newyorkese è stato anche presidente fino al 2017 insieme a Ellen Burstyn e Al Pacino. "Ma nel mio percorso non ho imparato solo dall'Actors Studio. È arrivato più tardi nella mia vita. Avevo già iniziato a studiare qualche anno prima. Volevo essere sincero nelle cose che facevo e così ho scelto di prenderne parte".
Taxi Driver e il cinema di Martin Scorsese
Sono innumerevoli i ruoli che hanno reso Harvey Keitel uno dei grandi nomi di Hollywood, da Mr. White ne Le iene di Quentin Tarantino a Il cattivo tenente di Abel Ferrara. Tra questi impossibile non menzionare Matthew "Sport" Higgins, il protettore e amante di una giovanissima Jodei Foster nel ruolo di Iris in Taxi Driver. Un ruolo profondamente ambiguo come dimostra una sequenza in particolare, quella in cui la coppia di ritrova a ballare sulle note della musica di Bernard Herrmann nella camera della ragazza. "Questo è quello che ho imparato sull'essere un protettore", racconta l'attore parlando proprio dell'ambiguità del suo personaggio.
"Ne ho incontrato uno in quel periodo e abbiamo improvvisato per circa una settimana o due nella biblioteca e nelle stanze dell'Actors Studios. Mi ha insegnato come essere un protettore mentre io interpretavo la parte della ragazza e per poi passare a interpretare lui. Ho ascoltato quello che aveva da dirmi, mi sembrava ambiguo e continuava a dirmi che quella ragazza il mio personaggio l'amava. Ricordo che rispondevo: 'Sì, ma sto mentendo'. E lui rispondeva: 'No, non stai mentendo, la ami'. Mi ci è voluto molto tempo per accettarlo, ma ci sono riuscito. Pensavo di aver capito qualcosa che non avevo colto prima. Avrò sempre nostalgia del tipo di cinema creato da Martin Scorsese. Siamo davvero fortunati ad averlo ancora".