Per parlare di Harvest di Athina Rachel Tsangari (regista greca, che gira un film in Scozia: divertente ossimoro!) dobbiamo iniziare da un altro film, anch'esso presentato a Venezia (nel 2023), e anch'esso presentato in Concorso. Ossia, Dogman di Luc Besson. Cosa c'entra? Il comune denominatore è l'attore protagonista, Caleb Landry Jones, che continua a sorprendere per applicazione e bravura. Quando presentò il film di Besson alla Mostra, Caleb sfoderò un marcato accento scozzese (lui, che è americano), perché impegnato sul set della Tsangari. Per analizzare al meglio un film dall'aspetto mistico e dalle molteplici forme - tutte sorprendenti - abbiamo scavato a fondo, fino alle radici (tanto per restare in tema, visto l'argomento trattato).
Innanzitutto, Harvest è tratto da un romanzo molto apprezzato, Il raccolto, di Jim Crace. Poi, per tutta la durata della lavorazione, l'attore non è mai uscito dal ruolo. Comprendiamo allora l'aderenza interpretativa, la credibilità e l'applicazione, per un personaggio archetipo di una certa lotta di classe, di ideologia, di risolutiva resistenza. Per questo, nella sua marcata corposità (non è un film facile, ma è giusto così), Harvest diventa inaspettatamente specchio di un passato aderente ad "un futuro che ancora non fa parte della storia".
Harvest, la modernità che avanza
Come detto, Harvest parte dall'immaginario vivido di uno dei più grandi scrittori britannici contemporanei, mischiando echi sociali, individuali, e poi quasi magici nella contemplazione visiva optata dalla regista greca (che mancava al cinema da ben dieci anni). Al centro, un villaggio sperduto, senza nome. Dovremmo essere all'incirca tra il Seicento e il Settecento, quando il parlamento inglese promulgò gli Enclousers Acts, ovvero le leggi sulle recinzioni applicate ai campi e ai terreni comuni appartenenti a piccoli proprietari, avvantaggiando di fatto i grandi proprietari.
Tuttavia, Harvest, per scelta narrativa, elude il periodo storico, ambientando il film in un'indefinita linea temporale (ci piace addirittura pensare che sia una specie di rappresentazione futuristica della società). Protagonisti, l'agricoltore Walter Thirsk (Landry Jones) e il proprietario terriero Charles Kent (Harry Melling). Il climax del villaggio viene alterato da un terribile incendio che brucia le stalle. Chi sarà stato? Ai confini dell'agglomerato, intanto, si stanziano alcuni forestieri. E se fossero i colpevoli? Il consueto ultimo giorno di raccolta viene allora alterato dagli eventi, via via sempre più stringenti: i campi sono minacciati, il villaggio inizia a sciogliersi, e la modernità sembra aver ormai fatto irruzione.
Un film folk che parla di gentrificazione
Schivo, a tratti inafferrabile, compassato e dolente nel procedere lento verso un finale che, invece, ribalta il ritmo ed alza il climax. Harvest, oltre a dimostrare l'ottima capacità registica di Athina Rachel Tsangari, amalgama la profondità del racconto strutturandolo secondo una lucida disamina sul presente. Se l'ambientazione folk enfatizzata dalla fotografia del sempre bravo Sean Price Williams (tra i più acuti dpi contemporanei) riesce a trasmettere il senso stesso del film (appunto: un luogo e un tempo che sfugge, riflessi sulla grana spessa e grezza della pellicola), è poi nel fulcro allegorico che Harvest trova il suo migliore aspetto.
Come nel romanzo di Crace, è l'invadenza della modernità a spezzare l'equilibrio della tradizione (generando un dislivello all'interno della società, tra ricchi, poveri e capi espiatori). L'introduzione di innovativi metodi di raccolto rappresenta, appunto, il nuovo che avanza, intaccando l'identità del popolo. La resistenza che ne sovviene, nei silenzi a volte interminabili del protagonista, e nella forte fisicità che Caleb Landry Jones utilizzata come se fosse un metro di racconto, muta verso la ricerca del futuro, in contrapposizione alla metafora del film: se siamo sospesi nel tempo, la vicenda (così come i personaggi), sono il riflesso della gentrificazione che ingoia la società puntando all'omologazione. Notevole.
Conclusioni
Harvest, nel suo manierismo, che si allunga fino all'ostilità di una narrativa lenta, dosata e compassata, nasconde una densità metaforica dal forte simbolismo. Una storia senza tempo e senza apparente luogo, che parla di quanto la modernità e l'innovazione, senza scrupoli, possano far svanire l'identità di una società. La gentrificazione, in qualche modo nata a metà del 1600, diventa quindi il punto di contatto tra un cinema allegorico e un racconto dalle sfumature folk.
Perché ci piace
- La presenza scenica di Caleb Landry Jones.
- L'allegoria sul contemporaneo.
- La fotografia.
- Lo stile...
Cosa non va
- ... se pur lento e compassato.
- Un film a volte manieristico.