Chissà se in quel pub ad Edimburgo, nel mezzo di una crisi personale e professionale feroce, J.K. Rowling sognò per qualche istante di raccogliere un successo così incredibile con quel maghetto occhialuto creato dalla sua fantasia. Harry Potter ha significato tantissimo per milioni di lettori prima e di spettatori poi. I romanzi diventarono una saga cinematografica, la saga diventò mito, simbolo per eccellenza dei millennials e della generazione Z. Otto film, la nascita di un fenomeno globale, ed il capitolo finale, Harry Potter e i Doni della Morte - Parte 2, che se da un lato fu ben accolto dalla critica, dall'altro lasciò interdetti per diversi motivi coloro che con i romanzi della Rowling avevano un rapporto molto stretto. A distanza di dieci anni da quell'epilogo, la domanda è se il film di David Yates sia stato veramente quella degna chiusura di cui si parlò, o se forse il giudizio vada rivisto.
Un film tanto atteso quanto forse deludente
Su Harry Potter e i doni della morte - parte 2 sicuramente gran parte dei giudizi più entusiasti furono connessi a due elementi di non trascurabile importanza: la palese superiorità rispetto al deludente capitolo precedente e naturalmente il fatto che si fosse di fronte all'atto finale, elemento che quasi sempre dona una luce quasi mitica ad ogni saga. Harry Potter e i doni della morte - parte 1 è ancora oggi indicato da molti come il peggior film del franchise, per ritmo, regia, per l'essere afflitto da un'atmosfera tra il cupo e il lugubre non supportata però da una sufficiente ricchezza di contenuti. Fu anche, a conti fatti, il primo film in cui ci si accorse che forse dei tre protagonisti l'unica in possesso di un vero talento recitativo era Emma Watson. Daniel Radcliffe e Rupert Grint, invece, si palesarono forse per la prima volta come due interpreti alquanto limitati. L'iter narrativo nel capitolo finale ripartiva da Voldermort, dalla nemesi che aveva il carisma e il mefistofelico fare di un grande Ralph Fiennes, alle prese con quella bacchetta di sambuco che poi si sarebbe rivelata la chiave della sua sconfitta. Rispetto all'episodio diretto da Alfonso Cuaron o ad altri della saga, sicuramente Harry Potter e i Doni della Morte - Parte 2 soffrì in modo palese per una sceneggiatura a dir poco frammentata, sacrificata sull'altare della spettacolarizzazione, della battaglia finale tra bene e male. Abbondante di retorica, sovente sbrigativo nel mostrarci l'epilogo dei vari personaggi, vantava però in diversi momenti la capacità di stupire come non mai, soprattutto di rendere per la prima volta meno infallibili, meno puri i suoi personaggi. Irregolare, senza una chiara direzione, con una regia spesso di non grande livello o qualità, questo capitolo finale fu però comunque in grado di lasciare una traccia profonda negli spettatori, grazie ad un ritrovato Potter, ma soprattutto ad uno dei personaggi più affascinanti e torbidi di Hogwarts: Severus Piton.
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Il "sempre" più famoso della storia
Non sbaglia poi di molto chi indica in lui, assieme al fantasma di Silente, il vero protagonista di quel film. Piton fu capace di rubare la scena ad Harry Potter, a dispetto della definitiva maturazione del protagonista della saga nella scena della sua temporanea morte e nel suo dialogo con il mentore che fu. Ma l'impatto che ebbe per il pubblico scoprire la verità circa l'oscuro e apparentemente tiranneggiante direttore dei Serpeverde, fu incredibile. Quello che era sempre sembrato il maggior antagonista dentro la Scuola del giovane mago si rivelò invece nella sua natura di protettore, di spia doppiogiochista devota a Silente, sorta di 007 armato di bacchetta che paradossalmente pagò con la vita il suo essere riuscito ad ingannare il terribile Voldemort. Piton venne assassinato per mano dell'Oscuro Signore e della feroce Nagini, in quanto ritenuto il vero possessore della bacchetta di Sambuco. La sua lacrima, il suo cambiamento totale negli ultimi istanti di fronte ad Harry, furono il preambolo a quel viaggio dentro la sua vita, la sua memoria, che lo resero in tutto e per tutto il personaggio più complesso e anche più umano di tutta la saga. L'infanzia solitaria e piena di dolore, colmata dalla presenza di Lily Evans, il bullismo subito da parte di James Potter, rivale in amore in una "guerra" per il cuore di Lily che Piton perse e che ne condizionò anche l'atteggiamento verso Harry. Quel ragazzo era figlio di Lily, era causa della sua morte per mano di Voldemort. Piton in un certo qual modo lo detestava ma al tempo vi era legato in modo fortissimo: era tutto ciò che rimaneva di lei. In un universo narrativo avvolto da misteri e sospetti, Piton, longa manus di un Silente rivelatosi in quei flashback incredibilmente machiavellico e freddamente calcolatore, fu illuminato di un'umanissima luce fatta di sensi di colpa, rancore, tristezza infinta ma anche coraggio. Quel suo "Sempre" riferito al grande amore perduto della sua vita lo resero portatore di una dimensione tragica quasi shakespeariana. La sua abilità, la sua incredibile freddezza e sprezzo del pericolo, ne fecero un gigante di quel mondo, forse in realtà il vero cardine nascosto della saga.
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Un momento generazionale di grande impatto
Il gigantismo della battaglia finale, il suo rovesciare la natura diegetica di una saga che faceva dei dialoghi e dell'atmosfera da film di formazione il proprio centro, non giovò particolarmente all'atto conclusivo. Ancora oggi il duello finale tra Potter e Voldemort, così diverso e meno aulico di come la Rowling l'aveva concepito, non può che lasciare un sapore amaro di rimpianto, per come poteva essere e invece non fu. Lo stesso dicasi di diversi altri momenti, quali per esempio l'uccisione di Nagiri, la morte di Bellatrix e tanti altri episodi fondamentali, in cui la sceneggiatura di Steve Kloves fu a dir poco avara e scarna, rinnegò la complessità della trama e del mondo potteriani, in virtù di una narrazione didascalica e sterile. Sì, dieci anni fa avremmo sicuramente meritato un epilogo migliore per una saga così importante, così iconica. Eppure, a dispetto di tutto, riguardando questo film, non riusciamo a non riconoscerne importanza, centralità, dimensione storica nel suo essere un perfetto simbolo di un momento spartiacque nella nostra vita, lo stesso messo in scena in quel finale malinconico, in quella stazione dove tutto era cominciato: il cambiamento. Nulla rimane uguale, tutto si trasforma e muta, eppure lo fa seguendo sovente la stessa strada, lo stesso modus operandi. Eravamo ragazzini o addirittura bambini quando i nostri genitori ci fecero conoscere in una libreria o magari in sala quel maghetto con quella cicatrice in fronte. I ragazzi di allora, hanno fatto riscoprire ai propri figli in questi anni quel mondo, li hanno guidati in modo non dissimile da come facevano Harry, Hermione e Ron, mentre ammirando il proprio futuro salire su quel treno per Hogwarts non potevano certamente ignorare di avere di fronte anche una parte di se stessi. Harry Potter rimane qualcosa di unico ed inimitabile, probabilmente anche per la sua stessa autrice, basta infatti gettare uno sguardo sui magri risultati raccolti da Animali Fantastici per rendersi conto che solo ed esclusivamente in quel momento quella storia poteva entrare nelle nostre vite. Ecco allora che quel capitolo finale, come per pochi altri film, si rafforza di un simbolismo talmente forte, di una responsabilità talmente grande, che ogni opinione di merito, non può che risultare assolutamente secondaria. Quando si fa la storia in fondo si ha sempre ragione.