Gruppo di famiglia in una villa
Ne La strategia degli affetti non c'è l'incomunicabilità alto-borghese di Michelangelo Antonioni, ma solo la sua versione più esteriore e di superficie. L'incomunicabilità che diviene luogo comune e caricatura, quella per intenderci così gustosamente bersagliata dal critico Giuseppe Marotta sull'Europeo negli anni Sessanta. Non c'è, purtroppo, nemmeno la lucidità e la raffinata spietatezza del cinema da camera viscontiano. Al suo posto, un intreccio fondato su inespressi rancori famigliari che deve forse più al melodramma d'ascendenza popolare, un po' sulla falsariga di Incompreso - Vita col figlio. Come si può notare, gli spunti del film di Dodo Fiori, alla seconda regia dopo Il silenzio intorno, sono molteplici anche se poco amalgamati in una struttura cinematografica coerente. L'asse portante dello sviluppo narrativo è fondata sul contraddittorio rapporto tra un padre, Paolo (Paolo Sassanelli), sfrontato e ambizioso uomo d'affari, e suo figlio Matteo (Davide Nebbia), dal temperamento opposto, placido e introverso soprattutto nei confronti del sesso opposto. L'arrivo in famiglia di una ragazza estranea, Nina (Nina Torresi), figlia di un vecchio amico di Paolo, fungerà da elemento catalizzatore per accrescere le tensioni tra i personaggi e portare allo scoperto i conflitti sopiti. Matteo non riesce a reggere le pressioni del padre e dell'ambiente maschilista che lo circonda (fa parte di una squadra di rugby) e subisce in parallelo la frustrazione nei confronti di una madre castrante e possessiva, Carla (Marta Iacopini). La sessualità inibita e inespressa di Matteo nei confronti di Nina porterà a un epilogo tragico, nel quale il giovane erediterà i medesimi rapporti di prevaricazione e di sfruttamento già innescati un tempo dal padre.
La sceneggiatura de La strategia degli affetti, elaborata, oltre che dal regista, anche da Diego Ribon e Heidrun Schleef (autori anche del copione di Good Morning, Aman, film prodotto dallo stesso Dodo Fiori), è densa di sostrati e si espone a differenti letture. Tra queste, emergono soprattutto una chiave di interpretazione psicanalitica (legata alle turbe sessuali dell'adolescente Matteo, frastornato da pulsioni ambigue e contrastanti) e una di tipo politico e sociale. La storia, infatti, ripropone il tema del conflitto di classe, focalizzandosi su una contrapposizione binaria tra la sopraffazione dell'imprenditore corrotto Paolo e la sottomissione del personaggio di Diego (Joe Capalbo), il padre proletario di Nina. I rapporti di potere sembrano tramandarsi in maniera quasi automatica e ineluttabile tra vecchie e nuove generazioni, senza alcuna possibilità di svincolarsi dai meccanismi prestabiliti di incasellamento sociale. Tematiche così complesse e articolate avrebbero però bisogno di essere declinate con adeguati mezzi sul piano cinematografico. Ciò che manca alla regia e alla sceneggiatura è la capacità nel padroneggiare le coordinate del kammerspiel e del melodramma familista di riferimento. Pur essendoci qualche suggestione convincente (ad esempio il rugby come metafora di una visione esistenziale fondata sullo scontro, oppure gli enormi cancelli della villa che isolano i personaggi dal mondo esterno), la sensazione complessiva è quella di trovarsi di fronte a un'opera in cui gli spunti iniziali rimangono solamente abbozzati; mentre i personaggi non riescono a fuoriuscire dal luogo comune, a partire proprio dal dissidio, eccessivamente manicheo, tra opposte classi sociali. In questo contesto anche il tema della supposta "incomunicabilità" rappresenta solo il ricorso a uno schema ricorrente e ormai divenuto retorico. Buono, al più, per le frecciatine del buon vecchio Giuseppe Marotta...