La prima battuta Hans Hoffmann (Franz Rogowski) la pronuncia a nove minuti dall'inizio del film. Eppure nello spazio di quel silenzio molto è stato detto, inteso, suggerito, soprattutto circa il motivo che ha portato il giovane dietro le sbarre. Già, perché nel 1968, l'anno delle grandi rivolte e delle rivoluzioni (anche sessuali) sentirsi libero di amare, o anche solo desiderare, appartenenti del proprio sesso era qualcosa di inaccettabile, un vero e proprio crimine da punire con il carcere. Una situazione non così mutata dalla prima volta in cui Hans è stato incarcerato nel 1945, e poi nel 1957.
Come sottolineeremo in questa recensione di Great Freedom (disponibile su MUBI), quello redatto da Sebastian Meise non è solo un saggio sulla situazione carceraria del tempo, ma anche una storia di amicizia che supera le divergenze e le paure umane. Un racconto lungo vent'anni, rinchiuso nello spazio di una stessa prigione, che enfatizza la potenza sconfinata del legame fedele tra due anime frantumate, incastrate nelle loro dipendenze e nelle passioni incomprese. Un film coeso, onesto, degno del Fassbinder più penetrante, che nasce e prende vita partendo dall'esperienza personale di gente che, come Hans, si ritrova - parafrasando l'incipit de Il processo di Franz Kafka - "denunciato (e imprigionato) senza che avesse fatto nulla di male".
Great Freedom: la trama
Ai sensi dell'articolo numero 175, Hans Hoffmann merita il carcere. Merita il carcere, come nel 1945 meritava il campo di concentramento, perché omosessuale. Una condanna priva di giustizia che lo porterà nell'arco di vent'anni a vivere nello spazio angusto di una cella. Eppure è proprio dietro quelle sbarre che Hans troverà l'unica vera certezza della sua vita: l'amicizia con Viktor. Il resto è una conglomerazione di passione e attrazione, in una lotta continua tra corpo e anima, testa e cuore.
Giochi di sguardi e ombre interiori
È un film fatto soprattutto di sguardi, Great Freedom. Occhiate seducenti, svestite di parole inutili e abbigliate di desiderio, attrazione. Perché quando i corpi sono obbligati a vestirsi, sono gli occhi che si spogliano, rivelando pensieri rimasti bloccati nella bocca, e azioni spesso congelate nello spazio della fantasia mentale. E proprio per enfatizzare la portata emotiva di ogni inquadratura, che il montaggio a opera di Joana Scrinzi si sviluppa in una galleria composta perlopiù di primi e primissimi piani. Un susseguirsi di riprese ravvicinate, quasi intime, atte a cogliere e carpire ogni più piccola mutazione umorale e sfumature di emozioni tenute trattenute, ma pronte a implodere.
Giocare su inquadrature ristrette significa anche puntare su interpretazioni introspettive e penetranti. Una richiesta che l'attore Franz Rogowski (già apprezzato in opere come Undine - Un amore per sempre e Freaks Out) accoglie con sapienza e profondità emotiva. Il suo Hans è un uomo sicuro alla superficie, ma frammentato all'interno. Circondati da ombre e sipari nebulosi, i corpi dei personaggi sono illuminati da una luce quasi divina, un occhio di bue che li fa risaltare distaccandoli dall'oscurità circostante e che piano piano li ingoia per poi rigurgitandoli, tra lacrime e violenze.
Nascondigli di ricordi e passioni
Il buio di uno sgabuzzino, lo stesso angusto di sempre, si fa macchina del tempo per Hans. Una volta che la sua porta viene chiusa, i ricordi prendono il sopravvento, così da riviverli, sentirli di nuovo sulla pelle. Nell'arco di vent'anni Hans in quello sgabuzzino ci è finito spesso e ogni volta un varco spazio-temporale si apre in lui, così da analizzare, tra calci e minacce, il proprio passato fatto di sbagli e poche certezze. E per Hans, che tra i corridoi di quella prigione è riuscito anche a vivere l'illusione di un rapporto, la sua vera certezza è sempre stata Viktor (Georg Freidrich). Da studio interiore sulle fragilità di un singolo, Great Freedom si espande per trattare la complessità del doppio.
Eppure nel tratteggiare questa amicizia indistruttibile, lo sviluppo narrativo si perde nell'inseguire epiloghi mancati, o punti di svolta tanto commoventi, quanto prevedibili. Sebbene utili ai fini della storia e all'economia del racconto, certi passaggi di vita tra amanti mancati e dolori alimentati da ulteriore sofferenze, distolgono l'attenzione dello spettatore, depistandolo da quello che è il fine ultimo della sua narrazione: il racconto di una nascita, di uno sviluppo, e di continui ostacoli, per due anime perdute, incontratesi nel luogo dove ogni speranza viene lasciata e il senso di umanità si assottiglia.
Circondati da una fotografia caravaggesca, tra speranze e compassioni, sogni e sentimenti, Hans e Viktor si fanno poli opposti di un pianeta che ruota attorno a una stella ormai spentasi, ricercando nella forza del proprio nucleo interiore quella spinta necessaria per riprovare a credere e ritornare fuori a riveder le stelle, questa volta da uomini liberi e non solo macchiati dall'inchiostro dei tatuaggi e dall'ombra delle proprie colpe.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione di Great Freedom sottolineando come il film di Sebastian Meise (premiato al Torino Film Festival nel 2021) riesca a tradurre in immagini una forza potente come quella di una passione irrefrenabile e un'attrazione fatale nata e pronta a scorrere libera anche in uno spazio angusto come quello di una prigione. Un racconto soprattutto umano, dove l'amicizia si mescola a una fisicità richiesta, voluta, desiderata, tra due uomini destinati a restare insieme nell'arco di vent'anni.
Perché ci piace
- Le performance dei due protagonisti.
- La durezza di un racconto fisico, ed emozionante.
- L'impiego pregnante di primi e primissimi piani.
- L'impiego di una fotografia caravaggesca.
Cosa non va
- La mancanza di un ulteriore approfondimento circa l'importanza di certi eventi.