Recensione Nemico pubblico - Public Enemies (2009)
Mann sceglie senza mezze misure di rinunciare a qualsiasi forma esplicativa e ricostruttiva e fornisce lustro all'epica quasi involontaria uscita dalle pagine di Burroghs, portando in dote il suo sguardo infinito, la cui densità ancora una volta illumina la mente e scalda il cuore.
C'erano una volta gli anni '30 americani, il protezionismo, la crisi economica e una serie di bande di fuorilegge che ribaltarono una nazione totalmente impreparata a fronteggiare un onda criminale così massiva. Almeno fino alla nascita di una polizia federale, scientificamente organizzata, chiamata FBI. A dirigerla Edgar Hoover, animale politico, molto più che uomo d'azione. Obiettivo assoluto di Hoover: fermare John Dillinger e i suoi alleati, Machine Gun Kelly, Baby Face Nelson, Bonnie & Clyde. Uomo addetto al caso Melvin Purvis elegante, freddo e disciplinato, perfetta metà dello specchio del fuorilegge romantico Dillinger. Questi i fatti.
Ma c'era una volta anche un mirabile cinema noir che raccontava le gesta di questi criminali, modulando attentamente i toni, in modo da prenderne le distanze morali. La catarsi conclusiva del criminale, il suo melodrammatico pentimento ne era lo strumento principale, ma il sentimento americano era profondamente diviso, come lo era stato per Jessie James o per Billy The Kid. Di questa ambiguità si alimenta gran parte del mito del cinema americano. Un immaginario così potente da farsi realtà e perfino metro di interpretazione di una società, anche per chi gli States non li aveva mai visti e mai li vedrà. L'uscita del libro Nemico Pubblico del giornalista Brian Burroghs, con la sua minuziosa e documentata analisi, permessa dall'apertura di una serie di documenti ufficiali, infligge probabilmente un colpo mortale a un'epopea immaginata e costruita attraverso l'oralità, ma non ne scalfisce mai la portata immaginifica.
Nel dirigere l'adattamento cinematografico, Michael Mann, sceglie senza mezze misure di rinunciare a qualsiasi forma esplicativa e ricostruttiva. Come in Alì, Mann prende letteralmente un pezzo di vita di Dillinger e del mondo che lo circonda, perché semplicemente è quello che gli interessa e fornisce lustro all'epica quasi involontaria uscita dalle pagine di Burroghs, portando in dote il suo sguardo infinito, la cui densità ancora una volta illumina la mente e scalda il cuore. Nemico pubblico - Public Enemies, ancor più di Miami Vice, è un film che si interroga sul dove porre lo sguardo. Sul mutamento inevitabile di prospettiva. Ma senza giudizi di merito. Cinema che autoimpone più visioni e che sedimenta e ribalta le viscere fino all'esplosione di un climax che è un trattato di cinema assoluto. Permettendosi anche un finale di un romanticismo abissale, di quelli che frantumano le difese emotive. Perché il romanticismo, quello no, Mann non ha voglia di abbandonarlo. E l'amore ancora una volta è nell'addio e nella perdita dell'altro, nell'allontanarsi del suo sguardo. Mann si svincola dall'affresco, dalla didascalia, introduce decine di personaggi e ne frammenta nevroticamente le vicende (irritando chi ama la scrittura rigorosa), ma il suo Dillinger e la sua amata sono lì a dare forza al suo verbo. Non c'è noir, non c'è genere a cui aggrapparsi, c'è una storia che si produce secondo l'istinto del suo autore che arriva a far vagare lunarmente il suo Dillinger nel dipartimento che gli da la caccia, in una sequenza fantasmatica di grandezza stordente e che ancora una volta mette alla frusta l'idea tradizionale di racconto e che metterà in crisi gran parte del pubblico. Mann spezzetta, ribalta e pennella alla rincorsa di quel segno, quello sguardo o quel corpo che riproduca l'essenza dell'esperienza umana.
Per questo Nemico pubblico è un film inarrivabile. Non si tratta di continuare a tracciare le lodi del più importante regista vivente, assecondando la generale corsa al fanatismo, l'elogio al perfezionismo tecnico o l'ammirazione per la direzione degli attori, quanto di provarne a sposare la "morale" e il suo svelamento. Svelamento in divenire, perchè al di là dei risultati, lo studio manniano sull'esistenza non vuole saperne di arrestarsi. La stasi sarebbe la fine; catastrofe dei sensi e dello sguardo, marchio di fabbrica di tanta Hollywood fredda e inutile. L'unica via è allora lo sperimentalismo: tra soggettive e profondità di campo impensabili, primi piani insistiti alla ricerca di quell'elemento umano che fugge, raccordi sgrammaticati, scavalcamenti, lenti deformate, particolari spiazzanti e quella grana insistita. Il tutto tenuto insieme da un montaggio che mette i brividi per intenzioni e risultati, con delle sequenze che di fatto ridefiniscono i canoni della grammatica cinematografica. Pura avanguardia che non ha uguali attualmente, se non forse concettualmente The Hurt Locker di Katherine Bigelow. Senza il rischio della deriva da video arte dell'ultimo David Lynch di Inland Empire (comunque grandissimo, ma già abbondantemente e irrimediabilmente oltre la soglia del non-cinema) perché a Mann interessano sempre gli uomini e i loro percorsi.
Per amare Nemico pubblico è necessario immergersi all'interno. Dovere dello spettatore sarebbe quello di perdersi (ma con disciplina) in un universo di significati sempre più ricco e selettivo; un accumulo di dettagli che di film in film assume la forma del vivere. E se Heat - La sfida e Insider - Dietro la verità in modi diversi rimangono gli stralci di vita più esaustivi e iraggiungibili, Mann non ha più voglia di ingigantire e punta all'essenza. Ma vale la pena proseguire a inseguire un'idea di cinema che punta dritto al futuro. Nemico pubblico è l'ulteriore tassello, necessario e inevitabile che si apre nello sguardo manniano. Un nuovo livello di umanesimo che trova linfa vitale in un uso del digitale che si fa definitivamente filosofia di questa esigenza e che passa anche per un ricongiungimento inpensababile (a vedere il film) con Dante Spinotti. Nemico pubblico è la rivoluzione. Ma non molti la accetteranno.