Don't it always seem to go/ That you don't know what you've got till it's gone?
Che David Fincher, classe 1962, avesse un "tocco magico" per il thriller, non è certo una novità: ce ne eravamo già resi conto nel lontano 1995, quando Fincher sconcertò critica e spettatori con il suo secondo lungometraggio, Seven, film il cui impatto fragoroso risiede in buona parte in uno straziante colpo di scena finale che continua ancora oggi a suscitare brividi di orrore. Da allora, David Fincher non si è mai distaccato troppo a lungo dal suddetto genere, firmando titoli quali Panic Room, il sofisticato (e in parte sottovalutato) Zodiac e, nel 2011, Millennium - Uomini che odiano le donne, trasposizione made in Hollywood del caso editoriale firmato da Stieg Larsson.
Nel frattempo, il cineasta di Denver si è cimentato anche con uno scrittore del calibro di Francis Scott Fitzgerald con Il curioso caso di Benjamin Button, sontuoso melodramma romantico dai contorni fantastici, e soprattutto ha realizzato uno dei massimi capolavori della e sulla contemporaneità, The Social Network, in cui la maestria registica di Fincher creava un miracoloso connubio con l'acutezza e l'implacabile ironia del copione di Aaron Sorkin. Ma da un regista che, nel campo del thriller, sembrava aver già dato il meglio di sé, mettendo più volte alla prova i codici del genere, in pochi si sarebbero aspettati un tale, sbalorditivo esempio di virtuosisimo e allo stesso tempo di sprezzatura com'è accaduto invece, quest'anno, con il meraviglioso L'amore bugiardo - Gone Girl.
Alle origini del fenomeno
Alle radici dell'instant classic che sta catalizzando l'attenzione dei media da mesi, e del quale si continua a parlare nel corso della awards season e in vista delle imminenti nomination all'Oscar, c'è l'omonimo romanzo di Gillian Flynn, che nel 2012 si è rivelato uno dei maggiori eventi editoriali negli Stati Uniti (l'autrice ha indicato, come fonti di ispirazione, Diario di uno scandalo di Zoë Heller e il dramma Chi ha paura di Virginia Woolf? di Edward Albee). Ma benché un best-seller sia sempre un ottimo punto di partenza per le potenzialità commerciali di una trasposizione cinematografica, la popolarità del libro della Flynn (che ha firmato anche la sceneggiatura del film, e che tornerà presto a lavorare con Fincher per la serie TV Utopia) non basta di certo a spiegare le ragioni di un fenomeno che non soltanto ha già trascinato nelle sale sessanta milioni di spettatori in tutto il globo (con la tardiva inclusione dell'Italia, in cui Gone Girl è uscito con un clamoroso ritardo), ma ha scatenato pure gli entusiasmi pressoché unanimi della critica e degli awards bodies, impegnati a ricoprire il film di candidature. Insomma, perché Gone Girl può essere considerato, dati alla mano e senza timore di iperboli, l'ultimo cult movie, in ordine di tempo, dell'odierno cinema americano? A nostro avviso, la risposta risiede nel fatto che Gone Girl non è soltanto un thriller (così come, d'altra parte, The Social Network non era semplicemente un docu-drama sulla nascita di Facebook), o quantomeno è un thriller estremamente diverso rispetto agli altri recenti esemplari del proprio genere di appartenenza: un oggetto cinematografico di difficilissima catalogazione, che ha il merito di rinnovare in profondità determinate convenzioni e tecniche narratologiche applicate al grande schermo.
Caccia al tesoro
Eppure, l'incipit di Gone Girl non potrebbe essere più prossimo a quello di un tradizionale murder mystery. Il film si apre infatti (senza svelarvi colpi di scena) la mattina del 5 luglio, in una cittadina di provincia del Missouri, con l'improvvisa sparizione di Amy Elliott-Dunne (Rosamund Pike), moglie dell'ex giornalista disoccupato Nick Dunne (Ben Affleck), proprio nel giorno del loro quinto anniversario di matrimonio. Nick, allarmato dai segni di una possibile colluttazione, si rivolge alla polizia, che ispeziona la casa a caccia di possibili indizi. E di indizi, in effetti, ce n'è uno addirittura in senso letterale: una busta contenente il clue one, ovvero il primo indovinello della "caccia al tesoro" che Amy organizza a beneficio del marito ad ogni anniversario di nozze. Intanto il tempo trascorre, gli abitanti del piccolo centro si mobilitano per offrire il loro aiuto nelle ricerche di Amy, la detective Rhonda Boney (Kim Dickens) continua a rilevare stranezze e incongruenze nella versione fornita da Nick, mentre quest'ultimo avverte la pressione crescente di chi, anche solo per incidenza statistica, sa di essere il principale sospettato.
Senza fornire ulteriori elementi sulla trama (per lo spettatore che non avesse letto il libro della Flynn, difatti, il primo livello di godimento sarà offerto proprio dal dipanarsi della vicenda), possiamo già rilevare come il film di Fincher si presenti nella veste di un tipico "giallo di provincia": una variante del classico whodunit in cui ci si interroga sulla reale sorte (rapimento? Omicidio?) della vittima di turno. Ma, come dicevamo, il peculiare motivo di fascino di Gone Girl è rintracciabile nel suo progressivo smarcarsi dai canoni del thriller deduttivo, per dirigersi invece verso sentieri assai più insoliti ed impervi; proviamo pertanto ad inoltrarci in questi sentieri, nel tentativo di comprendere cosa renda Gone Girl un'opera così straordinariamente densa e seducente...
Fincher e lo storytelling: colpi di scena e realtà virtuali
Abbiamo esordito citando la predilezione di David Fincher per il thriller, ma a questa affermazione si potrebbe aggiungere un altro assunto, ancora più significativo: David Fincher ha una predilezione anche per lo storytelling, a maggior ragione quando, come in questo caso, ha l'occasione di amalgamare lo storytelling cinematografico con quello letterario. Lo studio dei meccanismi narrativi, la loro destrutturazione e la loro ricomposizione sono ormai un marchio di fabbrica nell'opera di Fincher. Non a caso la prima fase della sua produzione si contraddistingue per l'inserimento di twist che, nel finale, mostrano l'inganno perpetrato nei confronti del protagonista (e del pubblico) o ribaltano il senso dell'intero racconto: si pensi a Seven, a The Game - Nessuna regola e - ovviamente - a Fight Club, adattamento del romanzo di Chuck Palahniuk... soltanto un (legittimo) desiderio di sorprendere lo spettatore? Forse no. Che Fincher coltivi un intenso interesse per le modalità di costruzione di una storia ce lo rivela pure un film che, con la suspense strictu sensu, ha poco o nulla a che vedere, The Social Network. Nella sua pluripremiata pellicola incentrata sull'ascesa e sulle traversie giudiziarie di Mark Zuckerberg, il giovanissimo genio dell'informatica impersonato da Jesse Eisenberg, Fincher frantuma la linearità cronologica per creare un "gioco a incastri" infinitamente più intrigante, in cui non solo passato e presente si alternano in base alle deposizioni di Zuckerberg e dei suoi rivali (l'ex socio Eduardo Saverin, i gemelli Winklevoss), ma ci vengono proposte una pluralità di voci narranti, a ribadire il senso di fragilità gnoseologica della realtà stessa - e del resto, quale migliore "contenitore" di un film su un social network, realtà virtuale per eccellenza, in cui ciascun dettaglio enunciato dipende dall'affidabilità del narratore?
Caro diario...
Ecco, tutto ciò di cui abbiamo parlato fino ad ora si può ritrovare pure in Gone Girl, ma elevato ad un parossismo che assume un carattere quasi schizofrenico. Poiché - e da qui in poi avvisiamo i lettori che potrebbero incorrere in qualche inevitabile spoiler, quindi continuate la lettura a vostro rischio e pericolo! - il film sul mistero dei coniugi Nick ed Amy Dunne costituisce un'ideale summa del cinema fincheriano in termini di storytelling, con il suo susseguirsi di prodigiosi coup de théâtre. Un gustosissimo esperimento di narratologia in cui il regista americano si diverte furiosamente - e noi insieme a lui - a sovrapporre percorsi, punti di vista e differenti versioni della realtà, secondo un'orchestrazione magistrale, senza mai perdere d'occhio i propri obiettivi: la suspense, che nella prima parte del film (da quel fatidico 5 luglio) aumenta palpabile di minuto in minuto, mentre ci poniamo delle domande sul destino di Amy e sulla presunta innocenza (o colpevolezza) del marito; la satira sui media, sull'intrusione della curiosità pubblica nei drammi privati, sulla spettacolarizzazione della cronaca (che poi non si tratta di satira quanto di una raffigurazione paurosamente realistica, come lo era già ai suoi tempi quel capolavoro epocale intitolato Quinto potere); e l'analisi del matrimonio, vale a dire l'istituzione sociale primaria, il fondamento stesso della rispettabilità borghese, che nel film viene enucleata e fatta a pezzi dall'interno, impietosamente, attraverso gli schietti scambi di battute fra Nick e la sorella Margo (Carrie Coon) o peggio ancora attraverso il diario di Amy a proposito del proprio ménage. Quel diario, con pagine di sognante romanticismo, di amara disillusione e di spaventosa franchezza, che propone un emblematico "controcanto" alla verità di Nick, mettendo lo spettatore nella posizione di dover soppesare ogni parola e ogni gesto (compreso lo stupido sorriso del protagonista di fronte ai fotografi, nel momento più sbagliato possibile).
Cool girl gone wild
Se le parole e le azioni di Nick (un Ben Affleck mai così in parte, indovinatissima scelta di casting proprio in virtù della limitata espressività dell'attore) sono contrapposte, all'inizio, alle "confessioni" di Amy, ineffabile donna fantasma la cui presenza/assenza incombe sull'intero microcosmo del film, all'improvviso Fincher e Gillian Flynn compiono un drastico capovolgimento della prospettiva: un'acrobazia narrativa che, spostando la focalizzazione da Nick ad Amy, trasforma Gone Girl in un'opera altra, facendo entrare in scena - e questa volta non solo tramite flashback, ma in carne ed ossa - la vera protagonista. Perché è lei, Amy Elliott-Dunne, il personaggio chiave di Gone Girl, quello destinato (o almeno così ci si augura) ad assurgere a statura iconica nell'immaginario cinematografico del decennio, anche grazie alla sapiente, magnetica performance di una Rosamund Pike di eccezionale bravura.
Amy, pur nella sua scarsa plausibilità psicologica (ma non è certo un problema, in un film che non ha pretese di rigorosa verosimiglianza), incarna l'evoluzione dell'archetipo della dark lady, mutuato dal genere noir degli anni Quaranta: una donna fantasma, per l'appunto, sospesa fra realtà, sogno e incubo (e basti pensare alla Gene Tierney di Vertigine, alla Joan Bennett de La donna del ritratto, alla Kim Novak de La donna che visse due volte o all'invisibile Rebecca del classico di Alfred Hitchcock), ma anche una spietata femme fatale, che fonde in sé il fascino perverso e beffardo delle villainess alla Barbara Stanwyck con la ferocia psicotica della Glenn Close di Attrazione fatale. D'altra parte, non potrebbe essere diverso in un racconto basato sul dualismo e sugli sdoppiamenti: in Amy convivono sia la geniale mente criminale in grado di architettare il "delitto perfetto", sia la cool girl, l'inappuntabile moglie e madre borghese (e questa è in fondo la sua vera aspirazione) cresciuta all'ombra del simulacro chiamato Amazing Amy, ingombrante alter ego superstar di una collana di libri per bambini. Una dicotomia, quella fra Amazing Amy e la diabolica assassina che si rimaterializza dal nulla ricoperta di sangue, di sottile, ambigua, insostenibile mostruosità... almeno fin quando l'orrore non tornerà ad essere celato dietro la porta chiusa di una famiglia troppo perfetta per essere vera.
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