Un lungo sguardo tra fratelli. Dirsi tutto senza dire niente, un ultimo abbraccio, uno sparo inevitabile. Anche gli immortali muoiono. Anche chi era condannato a vivere scende a patti con quel destino infame che attende chi ha fatto del crimine la propria vocazione blasfema. La morte di Ciro Di Marzio per mano di Genny Savastano è stato il doloroso saluto della terza stagione di Gomorra, lo sconvolgente epilogo di una serie che non hai mitizzato presunti eroi o intravisto epica nello squallore criminale in cui è immersa. Chi non è d'accordo, guardi con attenzione l'esistenza balorda di Ciro Di Marzio, il più shakespeariano di questa tragedia umana, dove uomini si credono grandi ammazzando mogli, tradendo gli amici, sopravvivendo ai figli. Alla vigilia di Gomorra 4, in arrivo dal 29 marzo su Sky Atlantic, abbiamo deciso di fare quattro chiacchiere con questo Iago della Camorra, con l'attore capace di dare forma a un uomo criptico e tormentato.
In questa intervista a Marco D'Amore parleremo del grande salto di un interprete intelligente, colto e coraggioso, passato alla regia di due episodi di Gomorra 4. Una serie-evento, una delle serie tv più attese del 2019, ormai simbolo della rinascita italiana sul piccolo schermo, orfana di un personaggio ambiguo, imprevedibile e per questo amato da un pubblico sempre sorpreso dal suo modo di pensare e agire. Abbiamo incontrato Marco D'Amore durante la scorsa edizione di Lucca Comics & Games, immerso in una carnevale pop di cui si sentiva parte integrante. Lo abbiamo trovato sorridente, rilassato e molto interessato a raccontarci i retroscena di un lavoro complesso come quello della messa in scena. L'attore e il regista si fondono in un artista dall'eloquio ricercato, che trasuda passione e competenza per una materia maneggiata con grande consapevolezza. Perché per un Ciro Di Marzio che muore, c'è un Marco D'Amore che rinasce.
La Savana vista dagli occhi del leone: aspettando Gomorra 4
Marco, quando è scattata la molla? Quando hai capito che volevi e che potevi diventare regista?
Guarda, devo essere molto sincero. Non voglio essere architetto delle mie decisioni, però non mi piace neanche raccontare questa scelta come qualcosa di estemporaneo, come la follia di un momento. È un percorso che parte da tanto lontano, da quando ho iniziato a mettere a fuoco la mia natura. Spesso gli interpreti si preoccupano solo (giustamente) dei ruoli e sognano soltanto i loro personaggi. Io invece ho sempre avuto un enorme interesse nei confronti dei temi. In questo senso mi sono sempre sentito più un autore. Non volevo partecipare a un'avventura, volevo costruire un'avventura, esserne artefice. Sul set di Gomorra - La Serie, dove ho vissuto un apprendistato di sei anni (cosa molto rara per un attore), io sono stato sempre molto vicino ai registi, agli sceneggiatori, ai direttori della fotografia, agli operatori. Mi interessava la macchina, mi interessava anche stare dietro, non solo davanti. È stata una follia come è avvenuto questo salto alla regia. Dopo la decisione di uscire dalla serie, io sono andato a fare una controproposta a Cattleya, che è una casa di produzione molto giovane e molto coraggiosa nell'affrontare questo rischio. Perché nel mio caso non avevo a che fare con un set piccolo e una dimensione limitata come spesso capita ai registi esordienti, ma ero dentro a una macchina mostruosa.
Gomorra: frasi, parole (e maleparole) dagli Stati Uniti di Scampia e Secondigliano
Visto che hai parlato di temi, andando alle fondamenta del successo di Gomorra, quali sono i grandi temi e gli archetipi che hanno toccato le corde del pubblico?
Secondo me tanto si deve alla scelta del punto di vista narrativo. Quella è stata la chiave principale e più controversa, perché ha dato vita anche a tante critiche, ovvero raccontare la criminalità dalla prospettiva dei criminali. Per questo, quando accusano Gomorra di non avere personaggi positivi, io mi sento in dovere di difendere questa scelta, ma soprattutto di poter attaccare chi muove queste critiche, perché significa non saper leggere. Come se io raccontassi la Savana attraverso gli occhi di un leone. È evidente che i criminali non contemplano la società civile e le forze dell'ordine, ma le avvertono soltanto come un ostacolo sul loro cammino. E allora io credo che quel punto di vista lì, che non era mai stato adottato così bene, sia stato detonante. È stato un fatto, una presa di posizione precisa e caratterizzante.
Come Iago: chi è Ciro Di Marzio
Secondo te quanto c'è di shakespeariano nel personaggio di Ciro? È un po' uno Iago di Otello?
Questa cosa l'ho raccontata agli albori della serie, quando in molti mi chiedono come fossi riuscito a raccontare a dare forma a un camorrista. Difendendo il mio percorso, che è profondamente radicato nel teatro, dicevo di sentirmi un attore europeo, perché non sono figlio di quelle scuole di pensiero per cui è necessaria una mimesi con il personaggio. Per fare un esempio celebre: c'è il maestro di quel metodo, ovvero Robert De Niro, che per girare Taxi Driver face il tassista a New York per sei mesi. Ecco, io non lavoro così: non sono andato a spacciare, non ho mai ucciso nessuno, non ho mai strangolato una donna, non mi sono mai nascosto delle armi in casa. Ho fatto un percorso molto legato alla sceneggiatura, che già mi restituiva l'odore e il sapore del mio personaggio, e poi ho iniziato a costruire dei riferimenti anche molto lontani. E, costruendo questi ponti tra il mio bagaglio culturale e alcuni rimandi alla realtà, mi è venuto in mente Iago. Perché Ciro, proprio come lui, soffre nell'essere soltanto un alfiere, sa che non potrà mai essere qualcuno di importante, è un uomo d'azione, un uomo d'armi. Ciro e Iago sono due militari di cui si fa un ritratto psicologico finissimo. Talmente fine, che sia in Otello che in Gomorra, la loro dimensione e la loro strategia di pensiero finiscono per inglobare anche i protagonisti nella loro "tela".
Ciro compie delle azioni orribili e aberranti. Ti è mai capitato di giudicarlo?
Mai. E questo non è soltanto merito mio, ma della formazione che ho avuto e delle persone che ho incontrato. Grazie a tutto questo ho imparato a stabilire un rapporto ben preciso col mio personaggio. Nel mio immaginario ho sempre pensato che ci siano tre modi per interpretare qualcuno. Uno che, ahimè, è molto usato nel nostro paese, ed quello in cui il personaggio rimane nascosto dietro l'attore. L'attore sta sempre davanti, mostra se stesso, e non fa alcun racconto di quell'entità biografica preesistente con cui dovrebbe entrare in contatto. Potrà essere un prete, un camorrista, lo zio d'America: è semp 'o stess. Poi ci sono quegli attori che si mettono sopra il personaggio, e lo indicano, lo giudicano, perché pensano di assurgere a verità e a soluzioni definitive. Il che è un errore grave, perché Il personaggio è sempre più grande di chi lo interpreta. Io, invece, sono della scuola di pensiero che prevede di mettersi spalla a spalla con lui, cammino al suo fianco. Questo mi permette di prendere la mia strada e di abbandonarlo, a un certo punto.
Visto che siamo nella capitale del fumetto, ti chiedo: che gusti ha il Marco D'Amore lettore?
Sono un lettore compulsivo. E lo devo tanto a mio padre, che mi ha iniziato ai fumetti con la sua collezione di Tex. Poi, affinando da solo i miei gusti, ho imparato ad amare profondamente il personaggio di Dylan Dog, per poi imbattermi in grandi autori come Andrea Pazienza, Gipi e Zerocalcare. Mi piace tanto perché il fumetto, e il fantastico in generale, aprono degli squarci nella realtà che io, da spettatore, chiedo sempre a un'opera d'are. Mi piace il loro non essere per forza aderenti alla realtà, la loro capacità di consegnarmi sempre la possibilità di toccare altre derive.
Secondo te quanto siamo lontani dal creare un'industria dell'intrattenimento anche in Italia? Film come Lo chiamavano Jeeg Robot o Smetto quando voglio hanno scosso qualcosa?
Non so se abbiano cambiato qualcosa, però stanno crescendo schiere di nuovi autori che sono cresciuti e si sono nutriti con un tipo di narrazione transmediale e crossmediale. Persone che ora sentono l'esigenza di creare una serie di racconti altri. Adesso bisognerà capire se questi autori hanno la forza di imporre la propria idea al sistema. In quel caso riusciranno a vincere e ad imporre questa apertura al sistema cinematografico stesso. La cosa molto importante è che un certo tipo di cinema italiano sta cominciando ad approdare all'estero. Solo così potremo esportare nuove idee e non subire sempre quello che ci arriva da fuori.