Il deserto, si sa, cela molti segreti: lasciando, a chi lo attraversa, un'impronta indelebile che non sempre viene tramutata in 'bene'. Perché può inasprire gli animi e portare anche al male puro, a quella corruzione interiore che disperde l'essere umano fra la polvere e il vento. Come un luogo ancestrale di rito e di passaggio, capace di relegare a vuoti assoluti o covare dentro sè un'aridità che intacca perfino i cuori. Ambientato in uno sconfinato nulla, Goldstone decostruisce quel mito (tipicamente legato alla frontiera americana), ma lo rimesta a immagine e somiglianza degli elementi culturali del mondo Australe. Dove soggetto ad altre 'regole' del gioco, convivono gli stilemi del genere western pronti a sfociare nel noir hard-boiled fuori dal tempo e dallo spazio. Benché questo entroterra per niente consolatorio sia fatto di prostituzione, omicidi e violenza testosteronica, il conflitto-sociale rimane la spina più dolente della Storia: che da secoli, millenni, divide culture e mentalità, nativi e forestieri.
Australia, oggi. Il detective aborigeno Jay Swan (Aaron Pedersen) piomba, come un sasso in uno stagno, nella cittadina di Goldstone: un ricco centro industriale che ha per reddito locale la miniera di Furnace Creek. Qui, indagando sulla scomparsa di una ragazza cinese, viene accolto freddamente dal poliziotto Josh (Alex Russell) ligio al dovere. Ma ben presto, nuovi sconcertanti indizi portano alla luce fatti inquietanti nascosti dietro le miserabili esistenze di queste popolazioni australi. In un mondo violento, dove regna il nulla assoluto, i due detective sono spinti a scelte coraggiose, ad aprire finalmente gli occhi: forse non è oro tutto quel che luccica?
Una voracità contemporanea
Viaggio metafisico di dubbia moralità, Ivan Sen tratteggia un film dai contorni crepuscolari, che predilige l'occhio alla mente incappando però negli automatismi di una promiscuità goffa e sovrabbondante. Perché dietro l'aspetto da western contemporaneo, il regista australiano dell'acclamato Toomelah suggerisce invece un clima di inquietante attesa: tutto appare asfissiante, rarefatto, con dialoghi allungati verso una regia che lavora per accuratezza, senza mancare di stupire. E malgrado appaia interessante il voler rimarcare usi e costumi attuali, quasi sciamanici, lo è meno la volontà di legare un discorso politico a quello più strettamente spettacolare. Goldstone si trascina così nella polvere, si inceppa creando spunti riflessivi sul fenomeno della globalizzazione per poi arrancare nei meccanismi di uno sputo di mondo. Più che la cittadina sperduta tra le rocce, a esser depresso è il suo registro narrativo diametralmente opposto: una voracità disorganica che una volta di più flirta con il giallo, il poliziesco, il thriller non convenzionale. Mai veramente in grado di lasciare il segno.
Abile ma con riserva
Dotato di una musica sontuosa, Goldstone tocca vertici d'eccellenza quando a salire in cattedra sono i suoi ottimi protagonisti. Come l'infossato Aaron Pedersen, o ancora, una strepitosa e matriarca Jacki Weaver - volto 'regina' di un cinema qualitativamente alto (fin dai tempi di Animal Kingdom) - che regala autentiche meraviglie. Peccato, allora, che Sen disperda gran parte di questo talento per abbracciare un'esecuzione esageratamente eterogenea. Fino ad un epilogo, erroneamente imploso, che tiene 'aperte' una miriade di sbocchi possibili. Abile nell'evitare le trappole del genere, quanto noncurante dei troppi appigli su cui focalizzare l'attenzione. Rischiando, fra respiro filosofico e aspetto antropologico, di far smaniare chi l'ho ascolta.