Raccontare la camorra in modo diverso. Questo è il tentativo di Romano Montesarchio con Glory Hole, pellicola che ruota attorno a un piccolo camorrista interpretato da Francesco Di Leva. L'attore napoletano si mette al servizio di un'opera dai vaghi toni sperimentali che racconta il disperato tentativo di fuga di Silvestro (Di Leva) dopo aver commesso un crimine imperdonabile. La sua breve latitanza in un rifugio sotterraneo in cui viene condotto dagli amici di un tempo, un prete in crisi (Mario Pirrello) e un gestore di night (Roberto De Francesco), si trasforma in un purgatorio in cui il criminale sarà costretto a fare i conti col senso di colpa.
Romano Montesarchio costruisce Glory Hole (titolo che, oltre a contenere un riferimento sessuale esplicito, evoca anche la condizione claustrofobica che Silvestro è costretto a sopportare) attorno alla solida interpretazione di Francesco Di Leva, attore che, nonostante l'aspetto ruvido, ha ampiamente dimostrato la sua versatilità. Condizione necessaria per un film che lo costringe spesso a essere solo in scena, spiato da uno sguardo giudice che, a poco a poco, fa emergere la sua colpevolezza con l'aiuto di alcuni espedienti stilistici.
Glory Hole, la claustrofobica discesa agli inferi del camorrista Francesco Di Leva
Introdotto da un incipit asettico che crea un primo effetto straniante, Glory Hole è ambientato nel mondo della camorra napoletana ampiamente raccontata da film e serie tv. Romano Montesarchio non è, però, interessato a realizzare l'ennesima variazione sul tema perciò si sofferma solo brevemente sul mondo della criminalità, di cui Silvestro fa parte come addetto allo smaltimento rifiuti tossici che ha fatto sversare per decenni avvelenando i terreni.
Il regista punta a raccontare un senso di colpa privato legato a crimini di ben altra natura che spinge lentamente il personaggio di Francesco Di Leva verso la follia. In tal senso il film ha più a che fare con Kafka o Edgar Allan Poe che con Gomorra, visto l'utilizzo di espedienti visivi come il cambio di formato o l'uso delle telecamere di sorveglianza per denunciare la condizione onirico-allucinatoria del protagonista.
Amore e morte a Napoli
Se visivamente, Glory Hole adotta soluzioni che lo allontanano dal naturalismo tipico del mafia movie italiano, a livello narrativo il regista "complica" la comprensione degli eventi attraverso l'uso di flashback alternati ad allucinati inserti onirici. Se la storia, pezzo dopo pezzo, viene chiarita a grandi linee, il regista mantiene l'ambiguità sulla natura e i comportamenti di alcuni personaggi secondari, dal tormentato prete Beppe alle misteriose figure che si palesano intorno al bunker in cui Silvestro si è rifugiato.
Quello di Romano Montesarchio è uno sforzo encomiabile. Con l'aiuto dei co-sceneggiatori Edgardo Pistone e Stefano Russo, il regista prova a dare una sferzata a un genere spostando l'attenzione su aspetti inediti senza perdere la centralità della figura umana. Paura, vergogna, senso di colpa non sono sentimenti estranei a Silvestro tanto da materializzarsi sotto forma di incubi e allucinazioni. In un film così sui generis c'è spazio anche per l'amore grazie alla presenza eterea di Alba (Mariacarla Casillo), protagonista di una relazione proibita con Silvestro in quanto figlia del boss per cui lui lavora. Così come sui generis è il finale, assolutamente non in linea con quanto visto in precedenza, una sorta di confessione in perfetto cinema vérité in cui il camorrista ammette le sue colpe riversando in direzione dell'obiettivo tutto ciò che ci aveva taciuto fino a questo punto.
Conclusioni
Coraggiosa la scelta del regista di Glory Hole di raccontare la camorra senza attingere al bacino di topoi del genere, rinsaldati dal successo di film e serie tv sul tema, ma puntando sulla performance dell'intenso Francesco Di Leva nei panni di un piccolo criminale in fuga dopo aver commesso un crimine imperdonabile. Visivamente coraggioso e sperimentale, il film abbandona la radice prettamente naturalistica per esplorare i meandri della psiche, ma il non detto genera il desiderio di saperne di più.
Perché ci piace
- La performance intensa e sfaccettata di Francesco Di Leva.
- La voglia di sperimentare reinventando un genere ormai codificato.
Cosa non va
- Le continue variazioni rendono difficoltoso ricostruire la storia principale.
- Certe trovate visive dal sapore sperimentale appesantiscono la visione.