Il 29 ottobre del 1971 esordì nei cinema italiani Giù la testa, il sesto film di Sergio Leone. Il regista, sceneggiatore e produttore romano, dopo i successi ottenuti negli anni Sessanta con la sua quadrilogia western, spostò la propria attenzione sul Messico di inizio Novecento, durante la rivoluzione e conseguente guerra civile che nell'arco di un decennio cambiò radicalmente, e tragicamente, il Paese centramericano.
Giù la testa ebbe una fase di pre-produzione parecchio travagliata, soprattutto per i numerosi progetti cui Leone si stava dedicando in quel periodo. Il risultato finale fu quello di una pellicola molto complessa e piena di sfumature, dal tono differente rispetto ai film precedenti, ma caratterizzata dall'inconfondibile stile leoniano e dalle sublimi musiche di Ennio Morricone.
Nonostante sia stato celebrato meno rispetto a opere universali come quelle della Trilogia del dollaro, C'era una volta il West e C'era una volta in America, Giù la testa merita ampia considerazione all'interno della cinematografia italiana e internazionale: la rivoluzione secondo Sergio Leone, un tassello fondamentale nella cinematografia dell'autore romano.
1. Rivoluzionario per caso
Ehi Dio, sei sicuro che questa è Mesa Verde?
Messico, anni Dieci del Novecento. Juan Miranda (Rod Steiger) è un bandito che vive di espedienti, senza farsi alcun problema nel trovare la soluzione più rapida nelle sue malefatte. Insieme a lui la sua banda, composta tra gli altri dall'anziano padre e dai numerosi figli, tutti generati da altrettante madri: un aspetto del quale Juan va estremamente... orgoglioso. Un giorno, dopo aver rubato una lussuosa diligenza, tra le aride distese Juan nota della polvere proveniente da diverse esplosioni. Da una nube, sbuca un uomo su una motocicletta, bloccata istintivamente dal messicano sparando alle ruote. Dopo alcune schermaglie, i peones scoprono che il pilota è un irlandese, John (anzi, Sean) Mallory (James Coburn), un esperto dinamitardo ed ex rivoluzionario dell'IRA.
Juan ha come un'illuminazione, perché con l'aiuto di John il suo sogno criminale potrebbe diventare realtà: entrare e svaligiare i sotterranei della banca di Mesa Verde, la più grande del territorio. Mallory, inizialmente restio, anche a causa alle astute mosse di Juan non riuscirà a liberarsi del gruppo, e si offrirà di fornire i suoi straordinari esplosivi. Giunti in città, però, i messicani si accorgeranno come tutto appaia profondamente diverso da quanto avrebbero immaginato: i militari del dittatore Victoriano Huerta presidiano le strade e fucilano i rivoltosi che riescono a catturare.
Ma Juan non vede l'ora di passare all'azione. Sulla banca di Mesa Verde hanno posto l'obiettivo anche i rivoluzionari guidati dal dottor Villega, che hanno come fine ultimo quello di attaccare in più punti i soldati per consentire a Pancho Villa e a Emiliano Zapata di avanzare contro le forze governative. Assaltata la struttura e aperte le sbarre, Miranda si renderà conto di come lì non vi sia più il becco d'un quattrino: Mesa Verde è divenuta una prigione politica, occupata da centinaia di uomini. Portato in trionfo come un liberatore, Juan diverrà suo malgrado un rivoluzionario, suscitando l'ammirazione di John, che sembra rivivere i suoi giorni di lotta in Irlanda in quei moti agli albori: ma le ombre del passato ancora lo tormentano, mentre Miranda scoprirà amaramente i risvolti di un conflitto drammatico...
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2. Dalla guerra civile americana alla rivoluzione messicana
Ricordati che ora sei un grande eroe della rivoluzione. Viva Miranda!
Nel 1966, con Il buono, il brutto, il cattivo, Sergio Leone aveva affrontato il delicato tema della Secessione nordamericana, inserito sullo sfondo delle vicende che avevano come fulcro la corsa del Biondo, di Tuco e di Sentenza verso l'oro sottratto da alcuni soldati confederati al proprio esercito. Leone si era posto come osservatore di una tragedia collettiva, la quale aveva portato a una guerra civile che per anni devastò le due parti in contrapposizione, con l'affermazione conclusiva degli Unionisti.
Giù la testa, invece, rappresentò l'occasione per Leone e per i co-sceneggiatori Luciano Vincenzoni e Sergio Donati di porre lo sguardo sulla situazione messicana di inizio Novecento. Una nazione che, per almeno un paio di interminabili decenni, è stata teatro prima di una rivoluzione popolare e quindi di uno scontro tra fazioni, animate dalla lotta per il potere. Nell'incipit del film, il regista romano utilizzò un adattamento di uno dei passaggi del Libretto rosso di Mao Tse-tung: "La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La rivoluzione è un atto di violenza". Durante i trentacinque anni del porfiriato (ovvero la dittatura imposta da Porfirio Diaz), le diseguaglianze sociali non erano più sostenibili: in particolare i contadini, privati della proprietà sulla terra, non accettavano più le imposizioni di latifondisti e possidenti, anche stranieri. Come accade in ogni rivoluzione, però, è inevitabile che le conseguenze non siano controllabili, e la violenza prenda il sopravvento dilagando drammaticamente.
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3. Rivoluzione e disillusione
Quando ho cominciato a usare la dinamite, allora credevo anch'io in tante cose... in tutte, e ho finito per credere solo nella dinamite.
Juan Miranda e la sua famiglia non sembrano però particolarmente sfiorati dalla questione, andando avanti per la propria strada, tenendosi al di fuori dalla contesa. John Mallory, invece, della "rivoluzione" sa tutto. Nella realtà storica, gli anni di lotta armata (1917-1922) dell'Irish Republican Army e che furono parte della guerra d'indipendenza irlandese prima e di quella civile poi, non coincidono perfettamente con il periodo storico nel quale è ambientato Giù la testa (probabilmente attorno il 1913): ma quello che è importante nell'incastro narrativo del film è che due poli contrapposti, ovvero un peone che bada solo a campare come può e un idealista combattente in fuga, si incontrino e diano forma a un'amicizia sincera, dentro cui uno completi in qualche modo l'altro. Juan si renderà conto di come non ci si possa sottrarre a un interesse superiore, perché evitare la guerra a volte può non bastare: è lei che ti viene a cercare, e il messicano lo comprenderà tristemente sulla sua pelle; John, invece, riscoprirà i valori che credeva di aver perduto, ma la rivoluzione non fa sconti, a nessuna latitudine: né nella verde Irlanda, e neppure nel polveroso Messico. Un profondo cambiamento sociale e politico distrugge sempre tutto, per lasciare spazio a nuove fondamenta dalle quali ripartire.
(di seguito qualche piccolo spoiler)
La rivoluzione toglierà tutto a Juan, ma aveva già fatto lo stesso anche con John. Il primo dovrà piangere sui propri figli, sterminati durante un agguato delle truppe guidate dallo spietato colonello Günther Reza (interpretato da Antoine Saint-John), in azione mentre Juan e Sean erano impegnati proprio contro i governativi. A quel punto, gli sarà chiaro come non possa più tornare indietro, essendo stato trascinato dall'odio e dalla violenza sul piano della lotta, del sacrificio, verso la liberazione da un'oppressione che riduce le persone alla fame e alla disperazione. I sogni infranti del semplice criminale che è stato non esistono più, adesso c'è una causa da servire.
L'irlandese, invece, credeva in determinati valori: condivisione di un'idea politica, amicizia, lealtà. Tutti traditi quando il suo più caro amico, con il quale aveva in comune l'amore per la stessa donna, lo tradì denunciandolo alla polizia, dopo atroci torture. Così, svanì anche il sogno di Sean: la guerra, le esplosioni, le uccisioni non avevano portato a nulla, se non a dover rendersi conto che tutto era ormai inutile, quando qualcuno viene meno ai nobili propositi. L'incontro con John e il cambiamento che egli noterà nel suo amico lo condurranno a ritrovare per un attimo la pace interiore perduta, anche se rivivrà, attraverso il dottor Villega (uno straordinario Romolo Valli), i fantasmi del passato. Quest'ultimo, catturato e torturato, tradirà i suoi compagni di lotta. Ma Sean non commetterà lo stesso errore una seconda volta: anche lui è cambiato.
Io non ti giudico, Villega: l'ho fatto una sola volta in vita mia.
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4. Alle origini di Giù la testa
Sebbene Giù la testa non si possa considerare un western in senso classico, sia per le ambientazioni che per gli elementi narrativi, è da sempre affiancato alle opere più famose di Sergio Leone: si ritrovano i silenzi, i rumori, le inquadrature virtuosistiche che già avevano reso unici Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Il buono, il brutto, il cattivo e C'era una volta il West; inoltre, il 1971 vedeva ancora spopolare il western al botteghino italiano, sebbene l'epopea degli spaghetti stesse ormai volgendo al termine, lasciando spazio a nuovi autori e nuovi generi.
Leone, in realtà, era già proiettato oltre le storie del "suo" West americano, e più precisamente nel progetto inseguito per tutta la sua vita: C'era una volta in America. Così, il regista aveva deciso di dedicarsi soprattutto alla produzione all'interno degli studi di Cinecittà. Per dirigere Giù la testa, Leone aveva dapprima pensato a Sam Peckinpah, regista statunitense (anch'egli, a suo modo, rivoluzionario) di opere quali Sfida nell'Alta Sierra, Sierra Charriba e Il mucchio selvaggio, ma James Coburn e Rod Steiger (reduce dall'Oscar ottenuto con La calda notte dell'ispettore Tibbs) intendevano collaborare esclusivamente con il regista italiano.
Inoltre, Leone era rimasto particolarmente colpito dallo stile di Peter Bogdanovich, soprattutto dopo aver visto il film Bersagli (1968). Ma una certa incompatibilità tra i due si manifestò già al loro primo incontro a Roma. "La maggior parte del tempo la passavamo assistendo all'interpretazione che Sergio ci dava di ogni scena da girare" raccontava Bogdanovich in un libro-intervista del 1974. "Ogni seduta incominciava invariabilmente con Sergio che gridava, 'due grandi occhi verdi!' e si portava una mano a visiera sopra gli occhi; un'altra sotto, per indicare esattamente quello che si sarebbe visto sullo schermo". Stanco delle indicazioni che riceveva da Leone, Bogdanovich disse che non trovava utile quella discussione delle inquadrature e che a lui, comunque, non piacevano i primi piani. "Che cosa le piace allora?" chiese il regista romano. "I campi lunghi" rispose l'americano. Non sarebbero mai potuti andare d'accordo. A quel punto, Leone decise di tornare nuovamente dietro la macchina da presa.
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5. Messico e Irlanda
Amico mio, che grossa fregatura che t'ho dato...
Ma quando parliamo di Sergio Leone, non possiamo non parlare anche di Ennio Morricone. Il connubio straordinario tra i due geni, dopo i film precedenti, proseguì ovviamente anche con Giù la testa. Il compositore romano interpretò magistralmente il tono prima scanzonato (grazie a Juan) e poi fortemente nostalgico e drammatico (per John) del film. Il tema principale, che ha lo stesso titolo della pellicola, è tra i brani più celebri firmati da Morricone, e inquadra soprattutto il personaggio di Coburn: esso scandisce il ricordo del passato dell'irlandese e lo rievoca, e lo Sean Sean del coro in sottofondo rappresenta il richiamo delle sue origini, dalle quali non si è mai davvero allontanato. Tutti i flashback che Leone mette in scena sono accompagnati dalle varie versioni scritte da Morricone dello stesso tema, suggellate dalla meravigliosa voce di Edda Dell'Orso. In essi, Mallory ricorda tanto i momenti felici nel verde irlandese quanto quelli tragici, fino all'atto finale.
La Marcia degli accattoni è invece pensata per Juan Miranda e la sua famiglia, che avanza tra le macerie della guerra. Tema brillante e ironico, dall'andamento crescente, anche in questo caso con le voci del coro a dare un tocco sarcastico al brano.
Il brano Messico e Irlanda, infine, unisce idealmente le due rivoluzioni. Nelle sequenze in cui i soldati governativi eseguono delle fucilazioni, ma soprattutto nella scena del tradimento di Villega, i ricordi di Sean diventano nuovamente concreta realtà, poiché egli rivive esperienze già vissute e che sperava di aver lasciato nella vecchia Europa.
Da menzionare anche Mesa Verde, Amore, I figli morti, Invenzione per John, Rivoluzione contro e Dopo l'esplosione: tutti brani di una colonna sonora eccezionale, un altro splendido diamante della collezione di capolavori firmati da Ennio Morricone.
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