E' una storia lunghissima quella che si cela dietro all'ultimo film di Gianni Amelio, Il primo uomo, tratto dall'omonimo romanzo incompiuto di Albert Camus; uno scritto autobiografico, ritrovato tra i rottami dell'auto dello scrittore francese dopo l'incidente che gli è stato fatale nel 1960 e pubblicato nel 1994 a trentaquattro anni dalla morte del narratore, sotto l'attenta supervisione della figlia Catherine. Iniziati nel 2006, grazie all'interessamento del produttore francese Bruno Pesery che aveva acquistato i diritti del romanzo nel 2003, i lavori di riprese sono proseguiti tra diverse interruzioni e svariati problemi legati alle location algerine, fino al momento in cui la pellicola è stata ultimata, ottenendo il premio della critica alla scorsa edizione del Toronto International Film Festival. Un'opera imponente a livello produttivo, quella in uscita venerdì prossimo grazie a 01 Distribution, che Amelio ha però trasformato in occasione per fare i conti con la propria vita. E' stato naturale per l'autore calabrese, nato nel 1945, cresciuto da madre e nonna, con un padre emigrato all'estero, rivedere molto di sé nella vicenda dello scrittore Jacques Cormory, alter ego di Camus, tornato in Algeria, nei giorni più caldi del conflitto civile contro la Francia, per 'recuperare' la memoria del padre morto durante la Prima Guerra Mondiale. Argomento su cui lo stesso Amelio si è soffermato più volte questa mattina nell'incontro con la stampa che si è tenuto a Roma, alla presenza della protagonista femminile del film, Maya Sansa, che interpreta la parte della madre di Cormory/Camus.
Signor Amelio, molto si è detto del profondo legame che la unisce all'opera letteraria di Albert Camus. Mai come in questo caso è lecito chiederle quanto ci sia della sua vita nel film... Gianni Amelio: dirò di più. Ho il sospetto di essere stato stato scelto a dirigere il film proprio per il mio passato. Anche io come Camus sono stato cresciuto da una mamma e da una nonna molto energiche, ho passato l'estate a lavorare con uno zio e sono stato aiutato dal mio maestro a frequentare la scuola media. Mio padre, poi, l'ho conosciuto in tarda età. Detto questo, però, non bastano le coincidenze per fare un film. Ciò che ho trovato incoraggiante è stato il fatto di scrivere e dirigere un film autobiografico, seguendo però l'autobiografia di una persona forte come Camus. Ci tengo a precisare poi che i dialoghi non sono del libro, ma sono stati scritti tutti da me, ritagliati dalle vicende della mia famiglia.
Il fatto di rivedersi nella storia di Camus è stato un movimento naturale per lei?Quando faccio un film non mi metto a tavolino col bilancino del farmacista. Tutto quello che lo spettatore può intuire c'è, ma non è detto che l'abbia volontariamente inserito; non mi piacciono i film calcolati per spiegare le cose, quelli a tesi, sono per i film che emozionino e che trovino nello spettatore un complice.
Il film racconta parte dell'infanzia di Camus, focalizzandosi però sul suo rientro in Algeria, da scrittore ormai affermato, in un momento storico cruciale per la nazione, nella fase più acuta della guerra di liberazione dalla Francia. In qualche modo si è ispirato al film di Gillo Pontecorvo, La battaglia di Algeri?
Ci sono delle profonde differenze tra le due opere. Quello di Gillo era un film fatto a caldo, voluto fortemente dal governo agerino per celebrare giustamente la vittoria, un'opera che in qualche modo nasceva dalla cronaca e la cui forza stava proprio nella tempestività con cui riproponeva i fatti. L'uso della macchina a mano, l'impiego di attori non professionisti la faceva somigliare ad un documentario. Io, invece, non ho fatto un film sulla guerra d'Algeria, ma più in generale su di un conflitto che opponeva diverse etnie e l'ho fatto ispirandomi anche all'attualità. Uno dei problemi più gravi che abbiamo oggi è proprio quello di far convivere diverse etnie in uno stesso territorio, senza che alla violenza di una, si risponda con la violenza dell'altra. Per questo ritengo che Il primo uomo non sia un film sulla scia di quello di Pontecorvo. E' un film storico, forse il primo che storicizza le due posizioni diverse, rappresentate dalle due ale estremiste. In questo senso la posizione è mediata dal pensiero di Camus che ha sempre detto sì alla rivoluzione, rifiutando nettamente il terrorismo.
Una posizione che all'epoca fu giudicata duramente in patria...
Camus venne considerato un uomo di destra a differenza di Jean-Paul Sartre che diceva, in maniera troppo semplicistica, L'Algeria agli algerini, una posizione che non teneva conto della complessità della situazione. Camus non poteva essere così netto avendo vissuto quel conflitto dall'interno. Per questo ritengo fondamentale leggere oggi un libro come Il primo uomo.
In genere io non faccio provini troppo complicati se ho bisogno di scritturare un bambino, ma in questo caso ho agito in maniera completamente diversa perché non c'era intesa assoluta con i collaboratori francesi. Per capirci, avevano messo annunci dappertutto, sui giornali, su internet e alla fine si erano presentati in migliaia, tutti accompagnati da genitori in ansia. Faticosamente ho spiegato agli uomini della produzione che bisognava scegliere un via diversa, un metodo all'italiana, andando per strada, anche a costo di essere scambiato per un malintenzionato. Così siamo arrivati a Nino, un bambino di Tolosa che abbiamo trovato a Parigi, città dove si recava con la famiglia due volte all'anno. Ci ho scambiato due parole, ma non ne voleva proprio sapere di rispondermi. Quando ho provato a fotografarlo, guardava altrove. Allora avevo capito di aver trovato Jacques. Come diceva giustamente Luigi Comencini, i bambini non si dirigono, vanno lasciati liberi e poi bisogna rubare quello che possiedono, cercando di avvicinare quel qualcosa al personaggio che interpretano.
Questo metodo all'italiana è stato utile anche per altri ruoli?
Sì, anche per quello di Hamoud, il compagno di classe arabo di Jacques e poi per il ruolo di Aziz, il giovane martire della rivoluzione che Jacques cerca di salvare scrivendo una lettera all'allora ministro della Giustizia, Francois Mitterrand. Hachemi Abdelmalek, questo il nome dell'attore, fa il contadino e lo abbiamo incontrato al mercato dove andava a vendere la sua verdura. Nonostante le condizioni di partenza molto difficili siamo stati davvero molto fortunati. Non c'è mai stato un momento di scollamento tra attori, regia e troupe.
Com'è avvenuto il tuo incontro con Gianni?
Considero Roma come casa mia, ma ormai sono anni che vivo a Parigi. Quando ho incontrato Gianni era un momento strano perché avevo grande nostalgia dell'Italia e quando ho saputo dalla mia agente francese che Gianni stava cercando un'attrice per il suo film sono stata subito colpita. Ci siamo parlati e lì è iniziata un'avventura lunghissima, una preparazione lunga e laboriosa. Il film è stato rimandato più volte e chiamavo Gianni in continuazione chiedendogli quando saremmo partiti e finalmente ce l'abbiamo fatta.
Conoscevi Camus?
Sì, avevo letto Lo straniero, La peste e Caligola, ma non sapevo nulla del suo ultimo libro. Poi Gianni mi ha rivelato che non stavo entrando solo nella vita di Camus, ma anche nella sua, così ho avuto il doppio onore di incarnare anche sua madre, oltre a quella di Camus.
Il film è uscito in Francia? Si aspetta qualche reazione negativa? Gianni Amelio: il film uscirà a ottobre. Quanto alle reazioni negative, credo e spero che dopo 50 anni le ferite della rivoluzione algerina si siano rimarginate, anche se ho qualche piccolo sospetto.
Sospetto di che tipo?
Fino ad oggi non si è parlato del film, nonostante la prestigiosa vetrina internazionale del Festival di Toronto e la pubblicazione di alcune recensioni da parte di testate algerine. Credo che il film possa essere considerato di parte.
Quella in cui Jacques Cormory/Albert Camus parla alla radio a poche ore dall'esecuzione di Aziz, figlio del suo amico Hamoud. Nonostante si trattasse di un semplice primo piano allargato è stata la sequenza più complessa. Il testo del discorso è stato scritto da me e supervisionato dal produttore un centinaio di volte. Ho pesato ogni singolo termine per restituire il vero senso delle parole dette da Camus. Tutto ruotava attorno alla celebre frase che pronunciò ricevendo il premio Nobel per la letteratura e cioè, 'Tra la giustizia e mia madre, scelgo mia madre', un'affermazione che ho sempre considerato riduttiva del suo pensiero e anche apocrifa. Per questo nella sequenza citata gli ho fatto spiegare meglio ciò che intendeva e cioè che se gli arabi, a causa della rabbia, avessero fatto male ad una donna che come loro aveva sofferto pene indicibili, sarebbe stato dalla sua parte. Catherine Camus non ha avuto nulla da ridire.
Qual è stato il rapporto con la figlia di Camus?
A differenza della madre che aveva ceduto a Luchino Visconti i diritti di Lo straniero dopo la lettura della sceneggiatura, Catherine aveva stabilito con la produzione che avrebbe dato il suo assenso solo dopo aver visto il film, cosa che Pesery si era guardato bene dal dirmi, provocando in me una certa rabbia. In sostanza, se Il primo uomo non fosse stato di suo gradimento avremmo dovuto far sparire ogni riferimento al padre e al romanzo. Fortunamente ha amato molto il film, scrivendomi una lettera straordinaria. Inoltre è rimasta folgorata dal protagonista, Jacques Gamblin. 'L'ho accettato come mio padre dopo il primo fotogramma', mi ha detto.
Vi siete sentiti spesso durante la lavorazione del film?
Sì, certo, ha seguito ogni passo del mio lavoro. Il film l'ho scritto da solo nel mio francese maccheronico per abituarmi a pensarlo in francese e man mano che il lavoro procedeva e aggiungevo qualche dettaglio in più o cambiavo qualcosa è a Catherine che mi rifacevo. Lei non era tanto inquieta per gli eventuali errori di natura politica e pubblica riguardanti suo padre, perché ne avevano dette talmente tante sul suo conto che una sciocchezza in più non avrebbe spostato il problema. Catherine temeva che la vita privata del padre potesse essere travisata, storpiata. Non voleva il ritratto convenzionale dell'uomo che fumava tutto il santo giorno. Curiosamente nel film Camus non fuma mai. Inoltre lei voleva che la figura della nonna paterna venisse restituita in tutta la sua verità di donna dai modi semplici, di poche parole, ma capace di grandi gesti e di fierezza. Una donna abituata dalla vita a doversi piegare ai doveri, a lavorare senza fermarsi mai, umile anche quando diventa benestante.
E' vero che il film avrebbe dovuto partecipare al Festival di Venezia?
Venezia non l'ha voluto. Dopo averlo selezionato, con tanto di telefonata al produttore da parte di Marco Muller, il film è stato cancellato dal concorso due giorni dopo. Evidentemente c'erano opere più belle. A quel punto mi ha chiamato Piera Detassis, offrendomi di partecipare al Festival di Roma, ma ho rifiutato per rabbia. L'idea di andare a Toronto, invece, è stata del produttore, ma anche lì c'è stato qualche problema, infatti sono rimasto in Italia. Un festival non serve a niente se l'uscita del film non è immediata.