Due fratelli, un nome ingombrante alle spalle, ma di cui dicono di non aver mai sentito il peso, e il ricordo di un padre che "era di tutti", un patrimonio della commedia all'italiana. Lui attore, lei regista, il primo sui set con papà sin da bambino, lei che invece arriva a lavorare nel cinema a diciannove anni molto tempo dopo rispetto ai suoi fratelli. Ospiti nei giorni scorsi al Bct (Festival del Cinema e della Televisione in programma a Benevento dal 12 al 17 luglio) per celebrare il centenario dalla nascita del padre Ugo, Gian Marco e Maria Sole Tognazzi ci raccontano cosa abbia rappresentato per loro il suo cinema, la sua personalità dirompente, il suo essere genio e sregolatezza, la passione per la cucina e la convivialità come filosofia di vita.
Papà Ugo: il cinema, le risate, gli scherzi
Cento anni dalla nascita di vostro padre. Da artisti che cosa ha rappresentato il suo il cinema per voi?
Maria Sole Tognazzi: È stata una scoperta che ho fatto quando ho iniziato a lavorare: in quel momento ho sentito il bisogno, la necessità, la curiosità di conoscere meglio il lavoro di mio padre, che invece da ragazzina non avevo seguito molto, un po' per scelta, un po' perché non mi interessava, ma anche per reazione probabilmente. Mi sono trovata paradossalmente a fare l'assistente e l'aiuto regista, l'ho fatto per tanti anni prima di esordire alla regia e contemporaneamente ho cominciato a studiare cinema da autodidatta: quello di mio padre e più in generale il cinema di quel periodo, che è stato una scuola soprattutto di libertà, la stessa che dopo gli '80 e i '90 molti autori hanno cercato faticosamente di riconquistare e riproporre. Se c'è un ricordo legato al cinema di mio padre, è proprio un ricordo di libertà.
Gian Marco Tognazzi: Se consideriamo il lavoro di Ugo quello per cui si autodefiniva "un cuoco prestato al cinema", il mio lavoro mi dà grandi soddisfazioni attraverso il vino. Se parliamo invece dell'hobby, ho preso come ispirazione soltanto la parte interpretativa , ma non lui in quanto attore, perché sarebbe stato un errore madornale 'ispirarsi al padre', ne verrebbe fuori un'emulazione che non è rispettosa né di se stessi né nei suoi confronti. La fonte ispiratrice più importante di Ugo è stato il rischio, cioè darsi sempre un ostacolo in più rispetto al lavoro su un personaggio, ma se non hai quel tipo di carisma unico e irripetibile non puoi farlo. Per questo ho pensato di fare un percorso inverso, ovvero andare molto più verso i personaggi di quanto lui non portasse i personaggi su se stesso. Poi c'è una parte genetica dalla quale nessuno può scindersi e se viene fuori e lo ricorda ma senza scadere nella volontà dell'emulazione, allora diventa una cosa molto più naturale e onesta. Da mio padre ho imparato il senso del rischio e della libertà: a quel tempo potevano fare delle scelte, adesso invece la possibilità di scegliere è minore, ti vengono date delle opportunità e da attore non ti rimane che tentare di variare all'interno di quelle opportunità.
Si rideva molto con lui?
M. S. T.: Tantissimo. Gian Marco rideva come un pazzo, si divertiva a tal punto che veniva da me e mi diceva: "Non hai capito che ha detto papà!".
G.M.T.: Solo risate, solo divertimento. Era un continuo, la sua filosofia di vita si basava sulla convivialità e la condivisione con gli amici, perché Ugo soffriva molto la solitudine: doveva avere sempre qualcosa da fare, ma era se stesso ed è quello che la gente vede spesso nei suoi film. C'era un'esplosività nel suo modo di vedere le cose in una maniera sempre molto diversa dalla normalità, aveva un suo modo di interpretare la vita e questo creava sia nel bene che nel male delle situazioni. La cosa più bella di Ugo è che per entrare in empatia con una persona raccontava come prima cosa un fallimento, ma mai un successo. E quindi chiunque sentiva di avere di fronte sì, Ugo Tognazzi, ma allo stesso tempo una persona normale; per questo si finiva per aprirsi con lui anche in modo molto intimo. Credo che questa sia stata la sua grande forza: essere percepito sempre come un divo, ma accessibile. Avvicinarsi a lui non incuteva timore, Ugo aveva la capacità di essere inclusivo senza fare nulla.
Lo chiami Ugo invece di papà...
M. S. T.: Lui si giustifica spesso dicendo, "perché se lo chiamavi papà non rispondeva". Ecco, non è vero, perché io l'ho sempre chiamato papà e mi rispondeva. Veniva chiamato più Ugo che papà, camminando per strada non poteva fare un passo che era un continuo "Ugo! Ugo!" e si girava sempre, perché nostro padre come tutti i grandi attori di quella generazione era di tutti. Ed io me lo ricordo bene: da piccoli quando andavamo in macchina con lui non ti potevi fermare a un semaforo perché la gente si girava, lo chiamava e lui ovviamente rispondeva. Era più abituato a rispondere a "Ugo", un po' meno a "papà".
G. M. T.: Diciamo che rispetto a un "Ugo" ci volevano almeno quatto o cinque "papà". Per risparmiare tempo si passava direttamente a Ugo, aveva la fortuna di un nome breve che proprio per la sua brevità lo rendeva più accessibile, era immediato.
La passione per la cucina, le grandi cene a casa, i tornei da tennis: che ricordi avete di quelle adunate?
G. M. T.: Forse è più facile parlare di ricordi di quando non succedeva nulla e ti chiedevi: "Cavolo, oggi non è successo niente, che succede?", perché era un continuo, ogni giorno accadeva qualcosa di disastroso che però diventava immediatamente comico o comunque di divertente. La sua vita era così, si basava sullo stare insieme, dalla convivialità nascevano mille opportunità: la battuta che diventava l'idea per un film o un personaggio, lo scherzo, ma anche la discussione, la litigata, il contrasto. Il tipo di persone che partecipavano a questi incontri era talmente variegato, non c'era solo chi veniva dal cinema, così unendo vari settori uscivano fuori situazioni veramente nuove, strane. La tavola era il modo per riunire tutti quanti nella giovialità.
M.S. T. : Non parlerei di ricordi, è la nostra vita. Per noi la cucina, i tornei, gli scherzi in casa erano pane quotidiano. È un ricordo costante.
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Il peso di un nome
Il film a cui siete più legati?
G. M. T.: Emozionalmente parlando se devo dirne uno scelgo La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci, perché ci vinse Cannes e fu una grandissima soddisfazione, ma così tradirei Il vizietto che insieme a La grande abbuffata l'ha reso noto in tutto il mondo.
M. S. T.: Il mio film del cuore è L'anatra all'arancia con Monica Vitti, che da bambina vedevo spesso più di una volta, perché mi divertiva vedere Gian Marco ancora piccolo che recitava e veniva frustato da un attore francese! È un film che mi diverte ancora tantissimo.
In una società così schizofrenica, bipolare e veloce come la nostra che tipo di film avrebbe fatto vostro padre?
G. M. T.: Individuerebbe qualcosa, ma oggi faticherebbe anche lui a lavorare, perché è tutto diverso: il cinema non è più un'industria e nei confronti del pubblico non ha più il fascino di un tempo. Da metà degli anni '80 la società è completamente cambiata, quel cinema compreso fra metà dei '50 e l'inizio degli '80 e tutto ciò che rappresentava per gli autori, i registi e il pubblico di allora, non esiste più, è imparagonabile a oggi, parliamo di due mondi molto diversi. Non è tanto una questione di ruoli, ma di storie, fare critica sociale con quell'ironia e rimanendo così pungenti, oggi è più difficile. Se penso a un film come I mostri mi rendo conto di quanto la realtà contemporanea vada talmente oltre il cinema che è diventato quasi impossibile raccontarla facendo sorridere; sarebbe molto più complicato dare agli attori di allora l'opportunità di avere quelle storie. Oggi ci sono personaggi diversi con caratteristiche molto lontane da quelle della commedia all'italiana.
M. S. T.: Se penso a mio padre oggi quarantenne, credo che si divertirebbe a lavorare con Sorrentino, con Bellocchio e gli piacerebbe molto Martone, ma anche fare una commedia con Riccardo Milani. Spesso negli ultimi anni ho visto dei film e ho pensato che si sarebbe divertito molto a interpretare determinati personaggi, ad esempio molti ruoli di Servillo. Si sarebbe trovato molto a suo agio con diversi autori, avrebbe lavorato bene con Virzì, ad esempio, si sarebbe molto divertito e loro con lui.
Quanto è stato difficile costruire una vostra identità?
M. S. T.: Io e Gian Marco abbiamo fatto due percorsi diversi e il suo è stato indubbiamente più faticoso, perché il termine di paragone facendo lo stesso lavoro è stato immediato, e poi è identico a papà. Per quanto mi riguarda, non ho mai sentito il peso, se non anzi il privilegio di portare un nome così importante. A mio vantaggio è andata la curiosità rispetto al mio esordio come regista donna in un momento in cui ce ne erano pochissime, personalmente ho sentito molta più simpatia e incoraggiamento che rivalità. Ho portato e continuo a portare questo nome con orgoglio, per me non è stato assolutamente un peso, al contrario ha rappresentato un trampolino di lancio ed è stato il motivo per cui faccio la regista. Se fossi nata in un'altra famiglia non credo mi sarei mai accostata a questo lavoro, devo al mio nome e a mio padre non solo la passione per il cinema, ma anche la possibilità di farlo.
G. M. T.: Concordo con lei su tutto, a parte quando dice che sono identico. Il talento di nostro padre è irripetibile.
Avete intrapreso due carriere diverse e con tempi differenti. Gian Marco da piccolissimo, Maria Sole a diciannove anni.
M. S. T.: Fino a quel momento avevo la scuola, non pensavo al lavoro ma a fare la mia vita da studentessa. Quando è venuto a mancare mio padre avevo diciannove anni, coincise con il tempo della fine degli studi, l'inizio dell'università e del bisogno di cambiare vita. Fino a quel momento abitavamo a Velletri in campagna, poi mi sono trasferita a Roma e l'inizio di questo nuovo momento della mia vita è coinciso anche con il provare a lavorare. Poi ho seguito semplicemente il percorso che c'era davanti a me. Prima di allora il cinema non mi era mai interessato e non me n'ero neanche accorta, invece i miei fratelli ne erano già affascinati da piccoli.
G. M. T.: Ci portava sui set, ma lei era più restia, aveva un carattere molto chiuso ed era la più piccola. In quel modo nostro padre cercava di recuperare il tempo che non ti dedicava a casa, per noi ragazzi fu più semplice. Io e Ricky abbiamo cominciato subito, da piccolissimi, mio padre ha sempre sostenuto che mi piaceva fare l'attore sin da bambino. Poi però ho perso un po' il centro dell'obiettivo, ma l'ho recuperato dopo.