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Il film-evento del 1979, nonché il maggior successo dell'anno al box office americano e l'indiscusso dominatore agli Oscar di quell'anno, era stato un po' a sorpresa Kramer contro Kramer, affresco della crisi di un matrimonio e delle conseguenti dinamiche familiari. La pellicola di Robert Benton era riuscita infatti a coinvolgere un pubblico ampio e trasversale, mettendo in scena una quotidianità domestica in cui moltissime persone erano state in grado di riconoscersi. A ripetere l'impresa nove mesi più tardi, seguendo le orme di Kramer contro Kramer, è un altro film destinato a imporsi tra i casi cinematografici dell'anno: Gente comune, debutto da regista del più celebre divo hollywoodiano del decennio precedente, Robert Redford.
La grande scommessa di Robert Redford
Per Robert Redford, Gente comune costituisce una sfida perseguita con costanza fin da quando, nel 1976, aveva acquistato i diritti dell'omonimo romanzo d'esordio di Judith Guest prima ancora che fosse dato alle stampe, intuendone il grande potenziale: l'analisi dei rapporti fra i coniugi Jarrett, una coppia dell'alta borghesia di Chicago, e il loro secondogenito Conrad dopo la morte del fratello maggiore, Buck, annegato in mare durante una tempesta. La trasposizione del libro viene affidata alla penna sapiente di Alvin Sargent, sceneggiatore di film quali Paper Moon e Julia, e finalmente, il 19 settembre 1980, Gente comune approda nelle sale americane. Spinta dall'approvazione pressoché unanime della critica, l'opera prima di Redford registra venti milioni di spettatori nei soli Stati Uniti e si rivela uno dei titoli più amati dell'annata.
A suggellare il successo di Gente comune sarà anche una cospicua quantità di riconoscimenti: cinque Golden Globe, tra cui miglior film e regia, e quattro premi Oscar per miglior film, miglior regista a Robert Redford, miglior attore supporter a Timothy Hutton e miglior sceneggiatura adattata. In questa prospettiva, i trionfi contigui di Kramer contro Kramer e Gente comune apriranno la strada a un idillio fra l'Academy e un filone di drammi familiari che proseguirà con pellicole come Sul lago dorato, Voglia di tenerezza e Le stagioni del cuore. Eppure, a dispetto della materia narrativa, il film di Redford non potrebbe essere più distante dai cliché del weepie, riservandosi ben poche concessioni al sentimentalismo; al contrario, il suo stile spesso sobrio e asciutto contribuisce a renderlo una delle più efficaci rappresentazioni del malessere familiare nell'ambito del cinema americano.
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Ragazzo interrotto: il ritratto di Conrad
Un malessere, quello dipinto da Redford e Sargent, legato alla difficile elaborazione del lutto per Buck: la sua morte appartiene all'antefatto del film (e verrà mostrata solo in seguito, in un breve flashback), così come il tentato suicidio di Conrad, dimesso da poco da un istituto psichiatrico. Conrad, interpretato dal diciannovenne Timothy Hutton, è l'autentico protagonista del racconto: un ragazzo che tenta a fatica di riadattarsi alla sua ordinaria vita da studente, di recuperare un dialogo con i genitori e di superare traumi e sensi di colpa che non cessano di tormentarlo. A condurlo in quest'impresa sarà il dottor Tyrone C. Berger (Judd Hirsch): una figura in cui viene identificato il potere salvifico della psichiatria, secondo una tradizione hollywoodiana che sarà poi ripresa in film quali Il principe delle maree di Barbra Streisand e Will Hunting - Genio ribelle di Gus Van Sant.
In Gente comune, la terapia è dunque il viatico per un percorso accidentato e impervio, che Conrad deciderà di affrontare fino in fondo e che Redford descrive con un ammirevole equilibrio di toni e di registri. Mentre Timothy Hutton, al suo esordio sul grande schermo dopo una manciata di TV movie (e reduce dalla prematura perdita del padre, l'attore Jim Hutton), fornisce un ritratto indimenticabile di questo adolescente inquieto, costantemente sull'orlo del baratro: un'oscura consapevolezza impressa nello sguardo del giovane, nello smarrimento che accompagna ogni suo gesto, e destinata ad esplodere durante il suo ultimo, drammatico confronto con il dottor Berger.
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Mary Tyler Moore, da star della sitcom a madre di ghiaccio
Se la nervosa compostezza sfoderata da Conrad vorrebbe coprire il ticchettio di una bomba ad orologeria, al polo opposto si colloca la fredda disinvoltura di sua madre Beth, la quale vorrebbe cancellare ogni traccia della sofferenza che lei e i propri cari hanno vissuto, e pertanto non riesce a tollerare il disagio di Conrad. Se il nucleo di Gente comune consiste nella lotta del ragazzo con i propri fantasmi interiori, l'altro elemento alla base del film risiede in una relazione madre/figlio fra le più problematiche mai portate al cinema: perché Beth, impegnata a recuperare una 'normalità' fatta di eventi sociali e partite di golf, è un personaggio complesso e sfuggente, a cui presta il volto una superba Mary Tyler Moore, ricompensata con il Golden Globe e la nomination all'Oscar come miglior attrice.
Per il pubblico dell'epoca, la scelta di Mary Tyler Moore per un ruolo tanto ambiguo o addirittura 'sgradevole' ha un effetto quantomeno spiazzante. Popolarissima fin dal 1961 grazie alla sitcom The Dick Van Dyke Show, la Moore era diventata la massima icona della TV americana degli anni Settanta in virtù della parte di Mary Richards, brillante donna in carriera al centro di una delle serie più innovative del decennio, The Mary Tyler Moore Show. La Mary Richards di Mary Tyler Moore era uno degli emblemi dell'emancipazione femminile, e la sua natura brillante e carismatica era associata da tutti alla sua irresistibile interprete; tre anni dopo la chiusura della serie, la Moore si cimenta invece con una figura agli antipodi rispetto all'immagine solare offerta per tanti anni in televisione.
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Genitori, figli e la paura dei sentimenti
Ma si tratta di un'altra scommessa vinta: Beth Jarrett, con la sua corazza di impassibilità, è il contraltare di Conrad, e le scene in cui Timothy Hutton e Mary Tyler Moore condividono lo schermo sono fra le più tese ed intense di tutto il film. Quando, in una delle ultime sequenze, Conrad si china all'improvviso per stringere a sé la madre, la macchina da presa rimane fissa sul viso attonito di Beth, sul muto sgomento di una donna che si accorge di non poter ricambiare come vorrebbe l'affetto del figlio. È il preludio al definitivo faccia a faccia fra lei e il marito Calvin, impersonato da un Donald Sutherland forse mai così bravo: la sua performance, sviluppata quasi sempre in sottrazione, carica di sottintesi e di sfumature il ruolo di questo padre determinato a tenere unita la propria famiglia, ricacciando dietro un sorriso preoccupazioni e amarezze.
Eppure, nel finale, il sorriso di Calvin cederà il posto a una dolorosa rassegnazione: "Alla fine quello che hai sepolto è stato il meglio di te stessa", sono le parole che l'uomo rivolge a Beth, pronunciate senza traccia di rabbia, ma con quieto struggimento. Alla rabbia si abbandonerà in compenso qualche ora più tardi, con il figlio Conrad, ma solo per un attimo: appena una scintilla prima di una reciproca confessione a cuore aperto, che li renderà pronti a riprendere la propria esistenza con un'insperata serenità. Non è un perfetto happy ending per i Jarrett, tutt'altro, ma è il perfetto epilogo di un film capace di racchiudere la propria forza nella semplicità della frase "Ti voglio bene" e di un abbraccio tra padre e figlio.
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