Generazione di fenomeni
Un'entrata in grande stile, a bordo di rombanti moto di grossa cilindrata. Un teschio minaccioso dipinto sulla carena, una scritta che non lascia spazio ad interpretazioni. Basta davvero poco per tratteggiare il mondo di Barney 'Schizo' Ross, capo di una banda di mercenari, o meglio di "Expendables", uomini che portano a termine obbiettivi militari senza grossi coinvolgimenti morali, con un lauto stipendio e senza il timore di morire. In questo gruppo di rinnegati che vivono fuori sincrono con il mondo convivono diverse anime: c'è Lee, un ex appartenente alla Forza Aerea Speciale Britannica, Gunnar, esperto cecchino, ma tossicodipendente, Yin Yang, veterano delle arti marziali. Non hanno alcun problema a sporcarsi le mani con missioni impossibili, il cui esito positivo viene puntualmente festeggiato nel laboratorio di Tool, un tatuatore-filosofo che da tempo ha abbandonato i campi di combattimento. E' proprio lui a mettere in contatto Barney con il suo prossimo datore di lavoro, il misterioso signor Church, che ha bisogno di Schizo e soci per un'azione che lo stesso Tool definisce "un viaggio all'inferno". Nella fattispecie, bisogna liberare l'isola di Vilena dal giogo del generale Garza, un militare che per denaro non ha esitato a vendere la sua terra a un gruppo di loschi figuri dediti alla coltivazione della cocaina. Dopo un giro di ricognizione in cui Barney ha modo di conoscere Sandra, figlia ribelle del generale, l'uomo decide di rinunciare. Qualcosa che non ha messo in preventivo, forse l'amore per quell'indomita ragazza, lo spinge a tornare sui suoi passi. Scopre così che i nemici indossano giacca e cravatta e sono diversi da quelli che aveva immaginato.
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Fanno bella mostra di sè anche Dolph Lundgren, il leggendario Ivan Drago di Rocky IV, qui nei panni del tossicomane Gunnar e soprattutto Mickey Rourke, il saggio Tool, uno per cui il tempo è passato e si vede tutto. Non mancano le stelle del nuovo firmamento come Jet Li, "costretto" ad apparire come uno dei tanti, nonostante la sua grazia basti da sola a tenere in piedi un film. Infine, c'è Jason Statham, rude attore britannico scoperto da Guy Ritchie e star in ascesa dell'immaginario iper muscolare. E' ingiusto però ridurre il film ad una mera operazione nostalgia; quello di Stallone è un esperimento (dai risultati crediamo più che prevedibili in termini di successo) che vuole dimostrare quanto possa ancora funzionare oggi un certo tipo di opera. La risposta è sì se a condurre il gioco c'è qualcuno che sappia il fatto suo, qualcuno che non abbia timore di sembrare retro con la sua voglia irrefrenabile di dividere il mondo in cattivi e buoni. Un applauso di cuore va a chi, come il produttore Kevin King, sostiene che per Stallone l'azione venga dopo la storia. Quello che diverte di più semmai è l'esatto opposto, ossia la totale mancanza di una struttura narrativa coerente, a favore di uno spettacolo che non è solo action, ma celebrazione dell'action e soprattutto di Sylvester Stallone. Una sorta di mito che si perpetua in eterno per la gioia degli estimatori più sfegatati. Dal punto di vista registico l'autore newyorkese si conferma per quello che è, un self made man che ha fatto tesoro delle sue esperienze cinematografiche passate ma che con la macchina da presa si limita davvero all'ordinaria amministrazione.
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Movieplayer.it
3.0/5