Io mi chiamo Bonnie Parker e lui è il signor Clyde Barrow. Noi rapiniamo banche.
Sono trascorsi già ventisei minuti dall'inizio di Gangster Story: Clyde Barrow e Bonnie Parker sono appena usciti da una banca con la refurtiva, ma la fuga dei due banditi è rallentata dal maldestro parcheggio del loro compare C.W. Moss, e così un dipendente della banca fa in tempo ad aggrapparsi al fianco della loro auto. Fino ad allora, l'attività criminale dei due protagonisti è stata dipinta con toni rocamboleschi e in maniera perfino buffa, ma ecco che d'improvviso tutto cambia: Clyde spara al volto del loro inseguitore, e l'inquadratura seguente è un primo piano della faccia dell'uomo ricoperta di sangue (una fugace citazione de La corazzata Potëmkin). Di colpo, questa commedia su due giovani ed esuberanti fuorilegge innamorati l'uno dell'altra ci schiaffa davanti agli occhi la cruda brutalità delle loro azioni; possiamo solo immaginare lo shock che una scena simile possa aver prodotto sugli spettatori del 1967.
"Le persone nel pubblico di Gangster Story ridono, dimostrando di non essere dei burattini - che sanno stare allo scherzo - finché non si beccano la prima pallottola dritta in faccia", scrive un'entusiasta Pauline Kael sulle pagine del New Yorker; "Il film li tiene in bilico fino alla fine. [...] Al posto di una parodia, in cui si dice al pubblico che non ha bisogno di sentirsi coinvolto, che è fatto tutto per ridere, che 'stiamo solo scherzando', Gangster Story ci paralizza dicendo 'E voi pensavate che stessimo solo scherzando'". La rappresentazione della violenza non è certo un tabù nel cinema americano, ma a commetterla stavolta non sono dei sadici villain: al contrario, sono due personaggi traboccanti di vitalità che ci stavano inducendo a parteggiare per loro e che, un minuto più tardi, ritroveremo nella sala di un cinema a guardare il musical La danza delle luci. Come reagire, insomma, di fronte a una coppia di protagonisti del genere?
La storia senza tempo di Bonnie e Clyde
È una domanda a cui probabilmente all'epoca in pochi sono preparati, e alla quale il film stesso non intende fornire alcuna risposta. Quando Bonnie and Clyde, distribuito in Italia come Gangster Story, fa il suo debutto negli Stati Uniti, il 13 agosto 1967, le reazioni in effetti sono alquanto disparate, come accade davanti a un oggetto non facilmente classificabile: c'è chi si scaglia contro la schietta violenza dell'opera, chi ne sottolinea l'impatto rivoluzionario (Pauline Kael lo considera il più eccitante film americano dai tempi di Va' e uccidi, Roger Ebert lo definisce una pietra miliare) e chi, dopo l'iniziale contrarietà, farà ammenda e ne riconoscerà i meriti (Joe Morgenstern, critico di Newsweek). Laddove il consenso è da subito palpabile, e tocca vette inedite, è invece fra il pubblico dei giovani e giovanissimi: quel pubblico che, in barba allo scetticismo della Warner Bros, trasformerà Gangster Story nel terzo maggior incasso dell'annata, con oltre quaranta milioni di spettatori soltanto in America.
Eppure, Gangster Story era nato in pratica come un B-movie: una rivisitazione del filone gangsteristico degli anni Trenta, in cui gli sceneggiatori David Newman e Robert Benton recuperavano la celebre vicenda dei due rapinatori di banche che avevano dominato l'attenzione mediatica nell'America rurale della Grande Depressione. La storia di Bonnie Parker e Clyde Barrow aveva già costituito più volte una fonte d'ispirazione per Hollywood: Sono innocente di Fritz Lang (1937), La donna del bandito di Nicholas Ray (1948), La sanguinaria di Joseph H. Lewis (1950) e poi ancora, nel 1958, il meno noto Femmina e mitra di William Witney (in originale The Bonnie Parker Story). Ma un decennio più tardi la sensibilità collettiva sta cambiando e, in campo cinematografico, l'onda della Nouvelle Vague si sta facendo sentire anche al di là dell'Atlantico, esortando sceneggiatori e registi a sperimentare soluzioni lontane dalle convenzioni della Hollywood classica.
Da Bowie a Kubrick, quando la musica si ispira al cinema
La grande scommessa di Warren Beatty
Ecco, Gangster Story è il frutto di questa ricerca di una maggior libertà. Non è un caso che Newman e Benton provino a piazzare il loro copione ai due capofila della Nouvelle Vague, François Truffaut e Jean-Luc Godard, prima che lo script attiri l'interesse di Warren Beatty, proprio su suggerimento di Truffaut. L'intuito di Beatty, in questo caso, è provvidenziale: il giovane divo acquista la sceneggiatura, decide di produrre lui stesso il film (assicurandosi il quaranta percento dei profitti) e, non senza qualche fatica, riesce a far accettare la regia ad Arthur Penn, con il quale aveva appena lavorato nel neo-noir Mickey One. Seppur realizzato a Hollywood, Gangster Story manterrà almeno in parte l'indipendenza creativa, l'alto tasso di realismo e la sottile vena 'anarchica' dei film della Nouvelle Vague, nonché la volontà di amalgamare toni e registri molto diversi, frantumando di fatto quella ferrea separazione fra i generi che era stata una delle regole del cinema americano.
Il dramma e la suspense convivono così con la leggerezza e l'ironia, spesso nello spazio della stessa scena: il primo omicidio commesso da Bonnie e Clyde è un perfetto esempio in tal senso, ma basti pensare alla sequenza in cui la banda dei Barrow prende in ostaggio Eugene e Velma, interpretati con una ventata di comicità da Gene Wilder ed Evans Evans, o all'ingombrante presenza della cognata di Clyde, Blanche, alla quale Estelle Parsons conferisce una bizzarra nota di isteria. Il paradosso è proprio che, pur rientrando nella vecchia tradizione dei gangster movie, la pellicola di Arthur Penn rovescia i canoni ormai consolidati, intraprende strade insolite e non si tira mai indietro quando si tratta di 'affondare il coltello'; come nell'indimenticabile finale, l'agguato in cui i corpi di Bonnie e Clyde vengono crivellati di proiettili in una lunga, agghiacciante sparatoria. "È un orrore che sembra andare avanti all'infinito, e tuttavia non dura un secondo più del dovuto", è la chiosa di Pauline Kael; "Il pubblico all'uscita del cinema è il pubblico più silenzioso che si possa immaginare".
Warren Beatty, fra carisma e talento: cinque ruoli simbolo di un eterno seduttore
Un nuovo inizio per il cinema americano
Per il trentenne Warren Beatty, lanciato nel 1961 da Elia Kazan in Splendore nell'erba, Clyde Barrow segna la consacrazione definitiva, con un personaggio a cui l'attore trasmette in egual misura il suo proverbiale sex appeal e un'intensità nervosa e selvatica, non priva di una pennellata di goffaggine. A prestare il volto a Bonnie Parker, dopo i rifiuti di Natalie Wood e Jane Fonda, è invece la ventiseienne Faye Dunaway, che ha appena esordito sul grande schermo in un paio di ruoli secondari. Con una sensualità sfrontata unita a una spontanea eleganza, la Dunaway connota la sua Bonnie di una giocosa amoralità e, soprattutto, della consapevolezza della parte che sta 'impersonando', anche a beneficio della stampa (il basco inclinato sul suo caschetto biondo, le pose da diva nelle foto da inviare ai giornali). Fianco a fianco, Warren Beatty e Faye Dunaway danno dunque vita a una coppia di antieroi in grado di intercettare gli impulsi ribellistici della controcultura giovanile degli anni Sessanta.
Alla quarantesima edizione degli Academy Award Gangster Story riceve ben dieci nomination, incluse le candidature come miglior film e per l'intera cinquina di comprimari (fra cui Gene Hackman e il caratterista Michael J. Pollard), e si aggiudica due premi Oscar per l'attrice supporter Estelle Parsons e la fotografia di Burnett Guffey. Ma ciò che più conta, il capolavoro di Arthur Penn segna una cesura nella storia del cinema americano in quel fatidico 1967 che, da lì a pochi mesi, vedrà emergere un altro dirompente fenomeno di massa, Il laureato di Mike Nichols (film-simbolo della rivoluzione sessuale), e sancisce l'apertura del glorioso capitolo della New Hollywood. Per la prima volta, da lì in poi, lo strapotere degli studios avrebbe dovuto fare i conti con una sorta di "politica degli autori" determinata a raccontare, in maniera coraggiosa e con sempre meno filtri, gli umori e le contraddizioni di una società e di un paese nel pieno di un profondo cambiamento.
I migliori film di Faye Dunaway, da Chinatown a Quinto potere