Se è vero ciò che sostiene l'analista di Gabriele Salvatores affermando che, anche se il regista non ha figli, ha comunque i suoi film (ben quindici), Educazione siberiana potrebbe diventare il figlio più 'difficile', il più arduo da crescere, ma anche quello disposto a dargli più soddisfazioni. Nella produzione del regista napoletano l'interesse nei confronti di un cinema più internazionale e sperimentale non è mai mancata, ma fino a oggi questa tendenza non aveva ancora avuto occasione di esplicitarsi in forma così piena. Ora, con l'adattamento del romanzo di Nicolai Lilin, caso editoriale tradotto in 14 lingue e distribuito in 20 paesi nel mondo, la situazione è cambiata. Il Courmayeur Noir In Festival ci ha offerto la possibilità di assistere in anteprima alla proiezione di alcune scene del film, il primo girato da Salvatores in lingua inglese, che arriverà in Italia il 28 febbraio 2013 distribuito da 01 Distribuition. Abbiamo perciò potuto apprezzare il lungo trailer, molto emozionante e pieno di ritmo, che anticipa alcuni dei momenti chiave del film. Nel trailer intravediamo i due giovani protagonisti mostrati dapprima da ragazzini poi, una volta cresciuti, dediti alla violenza e al crimine praticato secondo le regole della rigida comunità di cui fanno parte (l'attuale Moldavia). A rubar loro la scena troviamo la star John Malkovich, con il corpo ricoperto di tatuaggi secondo l'uso locale, che conclude il promo esclamando, pistola alla mano: "Un uomo non dovrebbe possedere più di quello che è in grado di amare". Gabriele Salvatores, lo scrittore Nicolai Lilin e i due interpreti Arnas Fedaravičius e Vilius Tumalavicius sono ospiti del festival per anticipare le prime informazioni su uno dei lavori più attesi della prossima stagione, ormai praticamente pronto per la release, e per narrare la loro esperienza sul set.
Gabriele, come è nata l'idea di adattare il romanzo di Nicolai Lilin?Gabriele Salvatores: Questo è il primo film che faccio che non è partito da una mia idea. Gina Gardini, una delle produttrici di Cattleya, ha letto il libro, lo ha proposto alla produzione e ha lottato per realizzarlo. E' il film più impegnativo che abbia mai girato sia dal punto di vista produttivo che artistico. E' la prima volta che giro in inglese senza nessun attore italiano e mi trovo a dirigere scene action e coordinare stuntmen. E' un film che ho sognato di fare fin da quando ero giovane e facevo teatro, ma aspiravo al cinema. In un certo senso è il mio 'primo' film.
Nicolai, avevi ricevuto numerose proposte di adattamento del tuo film, ma hai sempre rifiutato finché non ti è stato fatto il nome di Gabriele Salvatores.
Nicolai Lilin: Alla fine del servizio militare sono tornato a vivere in Russia. Era un periodo molto difficile, pieno di caos e io riflettevo sul senso della guerra perché, dall'interno, è impossibile capire cosa si stia realmente facendo. Un giorno un mio amico mi ha portato una videocassetta di Mediterraneo. Il film conteneva tanta verità umana e io mi sono commosso, ho segnato il nome del regista e mi sono riproposto di vedere tutti i suoi film. Alla fine il destino ci ha unito in questo strano modo. Ho rifiutato otto proposte perché volevo qualcuno che capisse realmente la mia storia, invece tutti la paragonavano a La promessa dell'assassino di Cronenberg. Non c'è niente di male, intendiamoci, ma non era quello che ho scritto io. Salvatores invece, mi ha detto: "Questa è una storia che mostra il crollo del vecchio mondo sotto il peso del nuovo". Aveva capito il mio messaggio e non ho avuto dubbi nell'affidare la storia nelle sue mani.
Educazione siberiana racconta l'altra metà del mondo. Siamo sommersi di film sulla mitologia criminale italiana, americana o asiatica, ma ci mancava di conoscere a fondo la realtà sovietica.
Gabriele Salvatores: Vorrei specificare che il mio lavoro non ha un intento né sociale né documentario. Non va a raccontare il crollo dell'Unione Sovietica, ma è un collage di storie personali. Con Rulli e Petraglia ho dovuto trovare un fil rouge che unisse tutte queste suggestioni. Al primo livello il film è una storia personale, un romanzo di formazione. Ovviamente dietro tutto questo c'è anche uno spaccato politico/sociale.
Nicolai Lilin: Concordo con Gabriele. Il messaggio politico c'è, ma è veicolato attraverso storie di personaggi. Io ho scritto il libro in questo modo perché nella società in cui sono nato le informazioni si passavano da una persona all'altra. Non credevamo ai media né ai libri perché per noi raccontano solo bugie. Noi ci basavamo solo sugli aneddoti umani e io ho fatto la stessa cosa nel mio libro riunendo queste storie.
Quali sono state le difficoltà principali durante la lavorazione?Gabriele Salvatores: Il film è estremamente fisico e i due giovani protagonisti hanno fatto un training con il capostunt de Il gladiatore di Ridley Scott. Questa è stata la parte più pesante. I miei attori si ricordano ancora la scena in cui sono stati costretti a gettarsi in acqua a - 20 gradi. Un giorno il mio operatore di macchina ha rischiato di lasciare i polpastrelli sull'attrezzatura a causa del freddo perché si era tolto i guanti. Lavorando in un film di questo tipo ho capito perché gli inglesi usano la stessa parola per dire 'sparare' e 'girare'. Sul set ho perso quasi sei chili, in più abbiamo trovato l'unico Natale a memoria d'uomo in cui a Vilnius in cui non aveva nevicato perciò abbiamo dovuto aspettare l'arrivo della neve, ritardando così le riprese.
Vilus, Arnas, come siete stati scelti da Gabriele? Quale è stata la vostra esperienza sul set?
Arnas Fedaravičius: Il casting non è stato molto lungo. E' iniziato a ottobre, io ho fatto l'audizione a febbraio e dopo poco sono stato scelto. Io e il mio collega Vilius siano due persone completamente diverse e all'inizio non è stato facile relazionarci, ma alla fine del film ho imparato ad amarlo come un amico e a comprenderne il carattere.
Vilius Tumalavicius: Io ho partecipato alla prima audizione a ottobre, quindi ho fatto tutta la trafila finché non mi hanno detto che ero stato scelto, chiedendomi di iniziare la preparazione fisica. E' vero che io e Vilius siamo molto diversi, ma è stato bello lavorare insieme.
Come avete costruito i vostri personaggi?
Arnas Fedaravičius: La prima fase del lavoro è stata una sorta di accademia. Abbiamo lavorato con un interprete che ci aiutava a comunicare con Gabriele e con un coach di recitazione che ci ha fatto fare moltissimi esercizi. Non ho costruito un personaggio, ma l'ho cercato dentro di me, senza usare la tecnica. A livello emotivo questa è stata l'esperienza più intensa della mia vita.
Vilius Tumalavicius: E' stata un'esperienza molto complessa. Sul set è bello quando al terzo ciak una scena è buona e Gabriele dà l'ok. Purtroppo non succede sempre così e ci sono stati momenti in cui non capivamo le cose che lui ci chiedeva. Gabriele e il coach mi hanno aiutato tantissimo a trovare la misura giusta della mia interpretazione. E' stata una sfida, un edificio che abbiamo costruito insieme un mattore alla volta.
Gabriele, tu sei un regista che ama le sfide. Questa è la tua opera più ambiziosa.
Gabriele Salvatores: Tra tutti i film che ho fatto quello che, come intenti, si avvicina di più a Educazione siberiana è Nirvana, perché anche in questo caso siamo stati chiamati a ricreare un mondo. E' stato uno sforzo cinematografico enorme. Abbiamo girato in Lituania dove non ci sono le scritte cirilliche per la strada, perciò le abbiamo dovute realizzare noi. In più abbiamo cercato tutta l'oggettistica dell'epoca, compresi i pacchetti di sigarette degli anni '80. Per entrare in questo mondo è stato necessario comprendere il rapporto con la religione, le Madonne con le pistole adorate dai membri della comunità, o il linguaggio dei tatuaggi che rappresentano la vita delle persone, ma che utilizzano simboli comprensibili solo agli iniziati.
Gabriele Salvatores: Avere un attore americano sul set cambia il modo di lavorare. Abbiamo girato tutta la sua parte in tre settimane. Non mi era mai capitato di lavorare così. Le voci che si sentivano su John erano terrorizzanti. Mi dicevano tutti che è una persona molto educata, ma in un attimo ti può mettere le mani al collo. Per fortuna non è stato così. Io e lui siamo quasi coetanei e siamo partiti da questa vicinanza, dal fatto di aver superato da poco la soglia dei sessanta. Abbiamo dei trascorsi comuni: siamo entrambi chitarristi, abbiamo iniziato a lavorare in teatro per poi passare al cinema. Ho costruito il suo personaggio su una sorta di 'ultimo dei Mohicani', di capo tribù portatore e custode dei valori del passato. La storia del film abbraccia un arco di dieci anni, ma ho scelto di non invecchiarlo fisicamente perché l'idea non mi piaceva e poi non avevamo molto tempo per il trucco. Dovevamo trovare il cambiamento all'interno. Un giorno John è arrivato sul set febbricitante e affaticato a causa di un malessere, ma ha voluto ugualmente recitare perché così avrebbe incarnato facilmente l'invecchiamento che gli avevo richiesto.
Nicolai, tu sei intervenuto in prima persona anche nella sceneggiatura? Hai affiancato Salvatores, Rulli e Petraglia nell'adattamento?
Nicolai Lilin: Questo era previsto fin dall'inizio. Sono molto grato a Cattleya e a Riccardo Tozzi che ha capito fin dall'inizio il senso del mio lavoro. Ho accettato di cedere i diritti con la promessa di lavorare insieme agli sceneggiatori perché in una storia come questa sono i dettagli che fanno la differenza e io li conosco meglio di chiunque altro. Alla fine abbiamo realizzato una sceneggiatura molto forte. Anche se la mia infanzia è stata violenta nutro comunque bei ricordi. Ricordi che, tra l'altro, cambiano col passare del tempo. La storia del film parla proprio del diventare uomini, dell'abbandono dell'adolescenza. Puoi raccontare qualsiasi storia, ma l'importante è raccontare esperienze umane perché noi siamo capaci di riconoscerci solo nei sentimenti di un'altra persona.
Hai già visto il film?
Nicolai Lilin: Non so quantificare la distanza tra il libro e il film perché si tratta di due media diversi, ma quando ho visto la pellicola pronta sono stato molto contento perché sento che mi rispecchia pienamente. Gabriele è un genio nel rappresentare sentimenti senza l'uso delle parole. Lui ha saputo usare il paesaggio, la fotografia per raccontare sentimenti profondi. E' un film molto poetico.
Gabriele Salvatores: Lo stile di un regista è determinato dal suo sguardo. La tecnica si adegua, ma è secondaria allo sguardo. Per aderire a un materiale così epico ho cercato il linguaggio più giusto. Di solito io giro pochi ciak, ma tante inquadrature. In genere 600. Stavolta con tre macchine sono arrivato a girare 1300 inquadrature. Spero che il risultato sia spettacolare, nel senso più positivo del termine.
Questo non è un film italiano, ma la troupe è italiana?
Gabriele Salvatores: Ho usato una troupe mista, in parte italiana e in parte lituana. In tutto erano 105 persone. Di solito alla fine del film saluto tutti, ma stavolta non ce l'ho fatta. Alcuni dei tecnici credo di non averli mai incontrati.
La scelta di realizzare una pellicola dal respiro internazionale implica un desiderio di allontanarsi dall'Italia?
Gabriele Salvatores: Motivi per allontanarsi dall'Italia in questo preciso momento ce ne sono tanti, ma il mio analista me ne ha fornito uno più interiore. Secondo lui per me era giunto il momento di diventare adulto. Non è stato facile, anzi, spesso ho avuto paura. Il secondo giorno di riprese mi sono trovato a girare la scena del fiume con una massa di persone intorno, la protezione civile e le turbine sott'acqua. Avrei voluto chiudermi nel camper e mettermi a piangere.
Cosa blocca il nostro cinema dal realizzare opere come questa, capaci di analizzare passato e presente?
Gabriele Salvatores: I budget sono elevati, ma non esagerati. L'azione ha un costo di ripresa superiore e il timore dei produttori è quello di non recuperare i soldi. Questo è il problema tecnico. Poi c'è un problema di autocensura. La storia dell'Italia oggi è molto difficile da raccontare perché non è cinematografica né emozionante. E' piccola, triste. Il grande potere del cinema è rievocare fantasmi e noi di questo abbiamo molto paura.
Gabriele Salvatores: Le musiche originali sono di Mauro Pagani, un musicista che conosco da una vita. E' un violinista quindi usa uno degli strumenti della tradizione russa. E' una musica interiore, intima. In più nel film ci sono due canzoni che amo molto: una la canta Nicolai in russo, l'altra è cantata da una voce migliore, è di David Bowie e la uso nella scena della giostra.
E i tuoi prossimi progetti? Dirigerai il Torino Film Festival come molti sostengono?
Gabriele Salvatores: Di Torino non ho niente da dire perché non so niente. Ho avuto un primo contatto col festival, ma poi nessuno mi ha più fatto sapere niente e dubito di riuscire a farlo visto che l'anno prossimo dovrò girare due film. Di uno dei progetti non parlo per scaramanzia, l'altro è un film sull'adolescenza e i supereroi.