Una guerra dove sono tutti vittime e carnefici e non c'è posto per la compassione, un solido war movie, verrebbe da dire di quelli che non se fanno più, erede di una grade tradizione di storie belliche, ma raccontata attraverso uno sguardo moderno di realismo e autenticità. Una riflessione sulla guerra al di là dello stereotipo degli alleati buoni contro i nazisti cattivi, un film dove si respira l'orrore della morte in ogni fotogramma, con scene di battaglia viscerali e un senso di fine imminente.
Fury è ambientato nel 1945, nella Germania della fine della guerra. "È un mondo diverso rispetto a quelli che siamo abituati a vedere nei comuni film di guerra, in cui si celebrano campagne vittoriose come l'invasione dell' Europa, il D-Day, l'Offensiva delle Ardenne o altre famose battaglie cui le truppe americane hanno preso parte" spiega il regista David Ayer, che ha voluto ambientare la sua storia in uno dei periodi maggiormente trascurati, proprio quello dell'ultimo sussulto dell'impero nazista, con l'esercito americano distrutto da anni di combattimenti e i suoi soldati esausti e abbrutiti più che mai dagli orrori della guerra.
Una sporca guerra
Fury si inserisce in quel filone di film sulla Seconda Guerra Mondiale che definiremmo del nuovo corso all'insegna di un estetica dell'iperrealismo che restituisce la violenza del conflitto in maniera truce ed esplicita. L'antesignano e precursore in questo senso è lo spilberghiano Salvate il soldato Ryan: anche qui il regista di Cincinnati è riuscito a fare scuola e tendenza, inaugurando un nuovo genere di war movie che si propone nell'impresa di portare lo spettatore fisicamente all'interno dell'orrore della guerra. La crudezza e il realismo dei primi 25 minuti di Ryan rimangono ancora oggi scioccanti e hanno segnato per sempre l'immaginario del genere bellico oltre ad essere entrati di diritto nella storia del cinema. Fury prosegue su questa linea di messa in scena, che si è avvalsa tra l'altro della consulenza di numerosi veterani per ricreare le tecniche militari del film, ma soprattutto i dettagli legati alla vita all'interno dei carri armati, contribuendo a rendere le atmosfere del film ancora più veritiere. Uno stile formale profuso di intenso realismo quello di David Ayer, già evidente nel precedente End of Watch - Tolleranza zero, un realismo funzionale e disturbante, quasi uno schiaffo per ricordarci che una guerra celebrata per anni al cinema in maniera paradossalmente troppo "pulita" non è mai stata invece così sporca: una guerra da tutti percepita come "giusta" dove morirono comunque 60 milioni di persone, e in questo non può esserci alcuna giustezza.
Gli ideali sono pacifici, la storia è violenta
Nella pancia del carro armato
Un film di guerra ma soprattutto di uomini in guerra. Il cameratismo, i rapporti umani che si sviluppano tra i soldati, sono l'altra componente assimilabile al film di Steven Spielberg: lo spirito di sacrificio, la confidenza, il coraggio e la paura condivisa di fronte all'orrore e alla morte, lampi di umanità che emergono in mezzo allo sconforto e all'abbrutimento. La figura del veterano Don Collier (un magnifico Brad Pitt), soprannominato non a caso Wardaddy, è quasi paternalistica per il modo in cui si prende cura dei suoi uomini, una famiglia il cui senso di appartenenza l'uno nei confronti dell'altro è sublimato ancora di più dal fatto di essere costretti a vivere fianco a fianco all'interno del carro armato che diventa come una vera propria casa della cui economia domestica ognuno ha il suo ruolo ben definito. L'originalità dell'impianto narrativo con l'azione che si svolge quasi esclusivamente a bordo e all'interno del tank, conferisce al film un suo tratto distintivo ed è funzionale alla coesione dei personaggi: lo Sherman con cannone da 76 mm assume una sua propria identità (Fury è il suo nome di battesimo da cui il titolo del film) e un ruolo da protagonista al pari dei personaggi che lo abitano, dentro il quale si rifugiano e attraversano l'orrore che li circonda, che diventa il loro ventre della balena, la casa al centro del proprio essere.
Bastardi pieni di gloria
Nelle sceneggiature di Ayer sempre molto importanti sono le correlazioni e i sentimenti che legano i personaggi e le dinamiche che modulano i loro rapporti: quello che si instaura tra il veterano Wardaddy e il giovane Norman somiglia molto a quello tra un padre ed un figlio, lineare e complesso nello stesso tempo, per le circostante estreme in cui si sviluppa. Un ragazzino che entra all'improvviso a far parte della famiglia, una recluta da educare nel giro di 24 ore come in Training Day, un giovane a cui il sergente dovrà suo malgrado estirpare brutalmente l'innocenza per permettergli di sopravvivere: strappargli via quella purezza che però lo affascina e che rappresenta per lui un miraggio di normalità in cui si concede un'evasione domestica nella scena forse più toccante del film. Nonostante i personaggi siano archetipi del genere, dal sergente autoritario ma paterno alla giovane recluta innocente, l'uomo di fede che ha imparato a uccidere, il bruto e l'alcolizzato di buon cuore, risultano tutti comunque di un'autenticità sorprendente e vanno ben oltre i classici clichés.
Merito non solo delle scelte registiche e dell'empatia di David Ayer, ma anche di un ottimo cast amalgamato alla perfezione, con un ritrovato Shia LaBeouf, Logan Lerman che conferma di non essere solo un ragazzo da parete, ma soprattutto un Brad Pitt maturo più che mai, bastardo pieno di gloria in uno dei migliori ruoli della sua carriera.
Movieplayer.it
3.5/5