Il regista simbolo del nostro cinema civile, il maestro Francesco Rosi, è giunto a Locarno per rititirare il Pardo alla carriera. Nonostante qualche piccolo acciacco, Rosi non ha voluto assolutamente mancare all'incontro col pubblico, dando vita a una lucida riflessione sulle sue opere e sull'attuale situazione politica del nostro paese. Il cinema di Rosi ha avuto la stessa importanza sociale delle grandi inchieste giornalistiche. Pellicole come Il caso Mattei, Salvatore Giuliano e Le mani sulla città hanno affrontato i grandi misteri italiani ancora privi di risposta portando alla luce meccanismi e inganni del potere. Ma il grande cinema di denuncia di Francesco Rosi non prende il via con le sue opere più note. Basta esaminare un film meno conosciuto come La sfida, noir sociale ambientato nei mercati generali di Napoli, scritto insieme alla compianta Suso Cecchi D'Amico che, negli anni '50, ha anticipato questa tendenza. I problemi politici affrontati dalle sue opere non si sono ancora risolti, ma col tempo il suo cinema è divenuto oggetto di una rivalutazione formale che ne ha riconosciuto l'importanza dei valori estetici a fianco di quelli contenutistici. Rosi, consapevole di questa tendenza critica in evoluzione, sembra compiaciuto della rilettura di cui la sua opera è oggetto.
Francesco Rosi: Sono contento che oggi vi sia l'occasione di parlare anche del valore formale dei miei film. Il contenuto è importante, ma non deve oscurare l'estetica e l'ambientazione. Nel mio cinema i luoghi sono parte fondante della storia. Ho sempre cercato di girare film che appartengono alla realtà del mio paese nei luoghi stessi in cui si erano svolti i fatti narrati. Opere come Salvatore Giuliano o Le mani sulla città sono strettamente legate al modo con cui ho situato la storia nel suo contesto, che è fondamentale così come la scelta degli interpreti. Per cinque film ho avuto come attore Gian Maria Volonté, un grandissimo attore che partecipava a ogni pellicola con un'adesione totale al significato del film. Alla fine del neorealismo il cinema italiano ha provato a occuparsi ancora della situazione reale del paese, ma la forza dei luoghi reali e dei personaggi coinvolti direttamente negli eventi è qualcosa che si nota immediatamente. Dopo la guerra, i film di Rossellini, Visconti, De Sica hanno cominciato a rappresentare la propria storia. Credo che questo sia il pregio principale della cinematografia italiana.Dopo aver esordito lavorando come assitente alla regia in La terra trema di Visconti, ha partecipato alla lavorazione di due pellicole importanti: Processo alla città di Luigi Zampa e Camicie rosse di Goffredo Alessandrini.
Francesco Rosi: Di Processo alla città ho curato anche la sceneggiatura. E' il primo film-inchiesta sulla camorra a Napoli e rappresenta la realtà del tempo, così come fa Napoli milionaria! di De Filippo, paragonabile ai film neorealisti dell'epoca per la capacità di fotografare una situazione particolare. Nonostante oggi si siano moltiplicate le inchieste televisive, la potenza di rappresentazione e la carica di riflessione che un film si porta dietro sono qualcosa di fondamentale. I giovani, purtroppo, non conoscono quel cinema di denuncia. Nelle scuole andrebbe dedicato del tempo alla storia del cinema, non solo italiano, visto che facciamo parte dell'Europa.
Come nasce l'idea di girare Uomini contro?
Francesco Rosi: Mi sono ispirato a un grande libro, Un anno sull'altipiano di Emilio Lussu. Molti registi volevano farne un film, ma Lussu non si decideva a cedere i diritti. Io ho insistito molto e la visione di Salvatore Giuliano ha contribuito a convincerlo. I problemi della guerra sono eterni e universali. Nell'ambiente militare vengono commessi molti errori che poi non vengono riconosciuti. Il libro di Lussu è un diario, così più che seguire un personaggio specifico ho deciso di fare un film collettivo che rappresentasse uno spaccato dei contadini che venivano mandati a combattere senza capire il senso della guerra, senza comprendere valori astratti come il patriottismo. Poi c'è la storia di due ufficiali. Gli alti ranghi militari vivevano la guerra in un modo diverso, davano gli ordini mentre in trincea stavano i soldati sacrificati come massa d'urto. Molti libri dedicati alla Prima Guerra Mondiale sono stati osteggiati così come lo è stato il mio film che dopo poco l'uscita è stato ritirato dalle sale, perché il cinema era stato minacciato. Io sono stato processato per vilipendio alla polizia e sono stato assolto durante l'istruttoria. Il mio lavoro è stato ostacolato e censurato come Orizzonti di gloria di Kubrick, un'altra opera dissacrante nei confronti della guerra.
E' possibile un cinema civile nell'Italia contemporanea?
La realtà di un paese stimola il desiderio di raccontare. Il mio film denunciava la realtà della guerra. La prima guerra mondiale è stata una carneficina di massa che ha distrutto una generazione di giovani e ne ha mandati a casa altrettanti mutilati. Le guerre sono sempre uguali in qualsiasi epoca, segnate da crudeltà e sopraffazione e io avuto la possiblità di denunciarlo con il mio lavoro, anche perché sui libri di scuola queste verità non sono scritte. Il desiderio di fare cinema civile c'è anche oggi, ma non sempre l'atmosfera e le condizioni economiche lo permettono.
La ricostruzione della strage di portella della Ginestra da lei girata in Salvatore Giuliano è un'immagine che continua a essere trasmessa ogni anno in televisione il primo maggio in concomitanza con l'anniversario della strage.
Lei cosa pensa dell'atteggiamento di quegli italiani che criticano Gomorra definendo Roberto Saviano uno scrittore mediocre? Lei ha letto il libro? E cosa pensa del film di Matteo Garrone?
Francesco Rosi: Sono veramente pochi quelli che pensano che Saviano sia uno scrittore mediocre. Io credo che il suo libro sia molto importante perché riesce a raccontare senza falsità la violenza della plebe. Gomorra affronta il rapporto tra la gente del popolo e il crimine organizzato che nell'Italia meridionale affonda le sue radici. Credo che il film di Garrone sia bello, ma forse non è stato esplorato pienamente il contesto. Il film affronta solo superficialmente il tema di come i giovani e i bambini vengano immediatamente catturati dal mondo del crimine, come perdano completamente l'appartenenza alla società civile e ai suoi valori morali. Gomorra è un film molto significativo, ma con più di analisi del contesto sarebbe stato ancora più incisivo. I giovani, oggi, hanno un rapporto molto più stretto con i valori negativi del paese che non con quelli positivi. L'educazione e la cultura vengono disprezzate, la scuola attraversa un periodo di grande crisi. Tutti i film e i libri che possano testimoniare queste mancanze in un momento politico particolare dominato dal caos e dal malgoverno sono fondamentali.
Con Dimenticare Palermo lei ha fatto forse il primo film che parla della liberalizzazione della droga.
Ci può raccontare qualche episodio legato al set che ci faccia capire che tipo di attore era Gian Maria Volonté?
Francesco Rosi: Volonté ha vissuto la sua professione con un grande senso di responsabilità. Quando lo sceglievo per un film, lo portavo in giro per cercare di entrare assieme a lui nel percorso per aderire al personaggio. Lui si preparava ai film copiando più volte a mano la sceneggiatura, finché non la sapeva tutta a memoria. Se si analizza la sua recitazione in un film come Uomini contro, si vede che non ha mai una perdita neanche di una sillaba. In una scena molto lunga di Cristo si è fermato a Eboli, Paolo Bonacelli non si ricordava una battuta. Io ho dato lo stop. Ha ripreso a recitare, ma si è fermato di nuovo. Volonté si è girato verso di me e con un sorriso malizioso mi ha detto: "Non ha studiato".