Le prime immagini di Foxcatcher - Una storia americana, dopo gli spezzoni di repertorio che accompagnano i titoli di testa, ci mostrano il giovane atleta Mark Schultz impegnato in uno sfibrante allenamento. Il ragazzo sta lottando con un manichino da boxe, in una palestra completamente deserta inquadrata in campo lungo, a sottolineare ancor di più la solitudine di un personaggio del quale, all'inizio, possiamo udire unicamente gli ansimi e i sommessi grugniti.
E in effetti Mark Schultz, che ha il volto e il fisico possente dell'attore Channing Tatum, si muove all'interno del film quasi come un toro in gabbia: goffo, pesante, impacciato, con una sorta di furia animalesca contenuta con difficoltà, e con un disagio palese ogni qual volta si trovi ad interagire con altri esseri umani in un ambiente diverso dalla palestra. Ed è attorno a Schultz, ex campione di wrestling alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984, che si sviluppa la narrazione di uno dei film più giustamente acclamati dell'annata appena trascorsa, approdato anche nelle sale italiane da giovedì 12 marzo grazie a BIM Distribuzione.
Da Capote a Foxcatcher: il cinema di Bennett Miller
Il principale artefice del progetto di Foxcatcher è un nome che magari non dirà molto al pubblico di massa, ma al quale sono bastate appena tre pellicole per affermarsi, in maniera graduale ma costante, come uno dei più importanti autori del cinema americano contemporaneo: il newyorkese Bennett Miller, quarantotto anni e appena tre film alle spalle (ai quali va aggiunta la sua opera d'esordio, il documentario del 1998 The Cruise). Grazie a Foxcatcher, Miller ha ricevuto il premio per la miglior regia alla 67esima edizione del Festival di Cannes e la candidatura all'Oscar come miglior regista, una delle cinque nomination conquistate dal film. Bennett Miller, del resto, aveva raccolto meritatissimi riconoscimenti anche con le sue precedenti pellicole: nel 2005 il suo primo lungometraggio di finzione, Truman Capote - A sangue freddo, straordinario ritratto del celebre scrittore americano nel periodo della genesi del suo capolavoro, ha ottenuto le nomination all'Oscar per miglior film e regia ed è valso la statuetta all'interprete di Capote, un magnifico Philip Seymour Hoffman; mentre nel 2011 la sua seconda pellicola, L'arte di vincere - Moneyball, ambientata nel mondo del baseball e con protagonista un efficacissimo Brad Pitt, è stata candidata all'Oscar come miglior film.
E le simpatie dell'Academy, così come quelle della critica americana ed europea, sono tutt'altro che casuali. Perché Bennett Miller, nei tre film da lui diretti nell'arco di questi ultimi dieci anni, ha dimostrato di possedere un controllo infallibile tanto della materia narrativa, quanto della messa in scena, la cui apparente freddezza (espressa anche in Foxcatcher attraverso la fotografia estremamente cupa di Greig Fraser) è in realtà funzionalissima a veicolare la poetica del regista, e rientra nell'ambito di un lavoro di precisione millimetrica sulla costruzione di ogni singola scena, sul valore dei dialoghi e sulla direzione degli attori. In tal senso, Truman Capote rappresenta uno degli esordi cinematografici più folgoranti e ammirevoli dello scorso decennio, mentre L'arte di vincere, forte della brillante sceneggiatura di Aaron Sorkin e Steven Zaillian, ha saputo reinventare il concetto stesso di "film sportivo" in modo simile ma complementare rispetto a Foxcatcher, titolo ascrivibile al medesimo filone, del quale tuttavia ha letteralmente fatto a pezzi regole e convenzioni. Proviamo a capire in che modo...
"Ornitologo, filatelico, filantropo"
Nelle prime sequenze di Foxcatcher, Mark Schultz, tre anni dopo la sua vittoria alle Olimpiadi, sfodera la propria medaglia d'oro quando viene invitato a parlare agli allievi di una scuola elementare. Mark, che poco prima dell'incontro prova nervosamente il suo discorso, esibisce con fierezza quel cimelio luccicante di fronte a una sparuta platea di bambini, in uno scenario di diffuso squallore in cui le parole altisonanti di Mark sembrano cadere nel vuoto; un vuoto rimarcato, nella scena seguente, dal contratto da venti dollari che una segretaria dell'istituto consegna al giovane, confondendolo con suo fratello David. A Miller bastano questi pochi, semplicissimi minuti per introdurre uno dei temi chiave del film: la retorica del successo - nel caso specifico, il successo sportivo - come cardine del pensiero di un paese le cui differenti generazioni sono state cresciute nel segno dell'American Dream, simboleggiato alla perfezione dall'archetipo del campione le cui virtù costituiscono il viatico per un doveroso riconoscimento.
Ed è proprio quel riconoscimento che, a tre anni di distanza dal trionfo alle Olimpiadi, viene a mancare a Mark. Un'assenza frustrante e dolorosa, avvertita dal giovane come un ineludibile malessere e vissuta con un perenne sentimento di inferiorità. È per queste ragioni che l'improvvisa comparsa di un benefattore, il milionario John Eleuthère du Pont, erede di una ricchissima famiglia di industriali della Pennsylvania, viene accolta da Mark come un'insperata benedizione. "Noi, come nazione, abbiamo mancato di onorarti", afferma du Pont, allenatore per hobby di un team sportivo denominato Foxcatcher, al cospetto di un Mark sempre più ammirato ed ammutolito, per poi aggiungere: "Io voglio vedere questo paese librarsi di nuovo". John E. du Pont, che vive in una lussuosissima residenza in stile georgiano, di arcaica ed aristocratica eleganza, e in una specie di bizzarro scioglilingua definisce se stesso con il trinomio "ornitologo, filatelico, filantropo", ha le fattezze di un semi-irriconoscibile Steve Carell, al quale il sapiente make up contribuisce a conferire un aspetto sottilmente inquietante; un risultato per cui va reso merito in particolare alla performance gelidamente sotto le righe di Carell, che si è guadagnato la nomination all'Oscar come miglior attore.
Una tragedia americana
La ricerca del ruolo paterno, rimarcata più volte nel corso del film sia da du Pont ("Un coach è un padre, un coach è un mentore"), sia da Mark, in maniera esplicita, nel suo discorso di ringraziamento al proprio mecenate, è però soltanto uno degli ingredienti del rapporto fra i due individui: un rapporto connotato da un senso di progressiva sudditanza psicologica che, con il passare dei minuti, si fa sempre più palese, rivelando la natura ambigua e intimamente 'malata' di questa relazione padre/figlio, mentore/allievo. Una sudditanza analoga a quella che lega John E. du Pont all'anziana madre Jean, presenza silenziosa ed opprimente, che Mark intravede per la prima volta in lontananza, avvolta nel suo lungo cappotto color porpora, e che ha il viso algido ed impenetrabile di Vanessa Redgrave: un'attrice - al solito - superba, alla quale sono sufficienti una manciata di minuti e la luce sinistra di pochi, indimenticabili sguardi per suggerire la posizione di dominio nei confronti del figlio.
Ma al cuore della storia si colloca soprattutto il triangolo composto dall'ossessivo du Pont, dal suo sottomesso "pupillo" Mark Schultz e dal fratello di Mark, David, interpretato da un bravissimo Mark Ruffalo (candidato all'Oscar come miglior attore supporter): una figura assai più solida ed equilibrata, in grado di offrire a Mark una sponda sicura, alternativa a quella proposta da du Pont, con un carico di aspettative che il giovane, forse, non è capace di soddisfare. Da dramma psicologico dalla tensione via via più palpabile, Foxcatcher assume così i contorni di un'autentica tragedia, a partire dall'atmosfera plumbea e tenebrosa in cui sono immersi i personaggi, alla quale si aggiungono elementi ulteriormente macabri: un esempio su tutti, gli uccelli impagliati che du Pont, appassionato di ornitologia, conserva nelle teche della propria villa, e che la cinepresa ci mostra in primissimo piano (come gli spettrali volatili che in Psycho arredavano il motel di Norman Bates).
L'epitaffio dell'American Dream
Torniamo così al discorso di partenza: perché Foxcatcher può essere considerato la perfetta antitesi del film sportivo tradizionale (alla Rocky, per intenderci)? Già con L'arte di vincere, in fondo, Bennett Miller aveva realizzato qualcosa di decisamente atipico: una pellicola sul baseball in cui non veniva mostrato neppure un minuto di partita, e in cui vittorie e sconfitte erano relegate nel fuoricampo (cinematografico, beninteso), mentre la macchina da presa si ostinava a seguire le strategie, le aspettative, le delusioni e i conflitti di chi opera lontano dai riflettori dello stadio. In Foxcatcher, invece, la prospettiva si allarga ancora di più, e l'ideale del valore sportivo nella dialettica fra vincitori e vinti subisce un ineluttabile rovesciamento. "Io sono alla guida dei miei uomini, da allenatore, da insegnante... io sto dando loro un sogno, e sto dando all'America speranza": immerso nelle sue visioni di gloria e di trofei, John E. du Pont non esita a rimarcare l'equazione fra il superomismo alla radice di una certa etica sportiva e la glorificazione di un paese all'apice dell'epoca reaganiana.
Questa stessa etica, tuttavia, non esita a rivelare il carico di sofferenza che essa porta con sé, una sofferenza implicita allo stesso, implacabile dualismo fra vittoria e sconfitta. E difatti, se dopo un match fortunato Mark, du Pont e la loro squadra festeggiano sulle note di Fame di David Bowie, quando invece è Mark a fallire clamorosamente un incontro, nella scena successiva lo osserviamo perdere il controllo, distruggere la propria camera d'albergo e inghiottire, in lacrime, sostanze che sarà poi costretto a vomitare nella tazza del water. L'American Dream, vessillo attorno al quale sono state raccolte le speranze individuali, così come le speranze di una nazione in procinto di porre termine alla Guerra Fredda, è demolito definitivamente e trasformato in incubo, mettendo a nudo la fragilità e il senso di inadeguatezza che sconfinano in una follia dagli esiti fatali. E il du Pont di Steve Carell si tramuta nel volto distorto e mostruoso di un potere che finisce per divorare se stesso, mentre il film ci consegna l'epitaffio di un paese inesorabilmente prigioniero del proprio mito. Ieri come oggi.
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