Cinema italiano e salute mentale: da Si può fare a La pazza gioia, 5 film (+1) da rivedere

In occasione dell'uscita nelle sale di Una terapia di gruppo, il nuovo film di Paolo Costella con un ensemble d'eccezione guidato da Claudio Bisio, scopriamo insieme 5 titoli italiani che si sono distinti per aver trattato la salute mentale.

La pazza gioia

Cinema e psicologia hanno in comune una storia lunga e importante, legittimata dopo l'affermazione sul piano internazionale della psicanalisi probabilmente proprio nel nostro Paese, quando uno dei registi più importanti di sempre affermò come la dimensione del racconto cinematografico trovasse il suo corrispettivo ideale in quella del racconto onirico. Il cinema tratta di storie non solo ideate, ma anche relative alle persone, dunque è fatalmente connesso alla scienza che più si è occupata del funzionamento della mente.

Il Cast Di Toc Toc
Terapia di gruppo, una foto dal set.

Eppure le pellicole italiane che trattano espressamente di disturbi mentali non sono molte, sicuramente non quanto quelle che hanno solamente adoperato i meccanismi e gli elementi più importanti delle teorie psicologiche. Questo perché è più facile e immediato adoperarle come strumento per parlare di altro invece che porle come centro nevralgico di un testo audiovisivo. Si utilizzavano al servizio di un racconto cinematografico, piuttosto che il contrario. Ecco perché una pellicola che si concentri espressamente sullo svisceramento di disagi mentali diviene sempre un oggetto interessante, pellicole come Una terapia di gruppo.

Per l'uscita della pellicola diretta da Paolo Costella, che riunisce un grande cast composto da Claudio Bisio, Claudio Santamaria, Margherita Buy, Valentina Lodovini, Lucia Mascino, Leo Gassmann e Ludovica Francesconi abbiamo deciso di raccogliere 5 film italiani che abbiano trattato la salute mentale come tematica centrale. Si tratta di titoli recenti anche perché la revisione di questo delicato argomento ha dovuto affrontare un preciso percorso di sdoganamento culturale. Un processo, per tanti versi, ancora in essere.

Il grande cocomero (1993)

Partiamo con il nome di una registra che troveremo anche più avanti in questa lista e che spesso ha dimostrato una certa sensibilità per il racconto di storie legate alla sfera della salute mentale. Arrivata alla sua terza pellicola Francesca Archibugi sceglie di prendere come riferimento l'esperienza di Marco Lombardo Radice, uno dei più conosciuti neuropsichiatri italiani della Storia recente all'unanimità riconosciuto come un pioniere nelle terapie per il trattamento di disturbi psichici tra i minori.

Il Grande Cocomero
Castellitto protagonista de Il grande cocomero

Ne Il grande cocomero il dottore (scomparso nel 1989) viene portato in scena da Sergio Castellitto con lo pseudonimo di Arturo, un giovane medico che decide di curare l'epilessia della piccola Valentina non come un disturbo prettamente neurologico, ma come una sintomatologia piscologica e dunque tentando la via dell'analisi. L'efficacia della diagnosi che identifica le crisi della bambina come PNES (convulsioni psicogene non epilettiche) diventa non solo un modo per superare lo stigma sociale legato alla malattia, ma permette di sfruttare al massimo il potenziale narrativo della malattia psicologica.

Il film racconta la storia di un dottore che, nello sviscerare questo meccanismo di difesa così invalidante per la sua paziente, smaschera le proprie sofferenze per l'elaborazione del lutto in seguito alla recente crisi coniugale, i limiti di una famiglia che non accetta le sofferenze della figlia e di un sistema sanitario italiano impreparato a livello strutturale e organizzativo a trattare casi del genere. Casi che necessitano di uno sguardo più complesso, oltre il semplice protocollo. Quello di cui ha bisogna una persona in sofferenza.

Si può fare (2008)

Uno spunto reale è anche quello alla base di Si può fare, il bel film di Giulio Manfredonia e scritto da Fabio Bonifacci. In questo caso le storie vere delle cooperative sociali nate in Italia in seguito alla legge 180 per fornire un'occupazione ai pazienti dimessi dai manicomi chiusi in seguito alla Legge Basaglia. Nella fattispecie la pellicola si concentra sulla cooperativa "Noncello" di Pordenone.

Claudio Bisio in una scena del film Si può fare
Claudio Bisio in Si può fare.

Claudio Bisio interpreta il ruolo di Nello, un sindacalista che cade in disgrazie agli occhi dei suoi sodali dopo la pubblicazione di un suo libro sulle teorie del mercato e si ritrova a gestire una cooperativa per il reinserimento del mondo del lavoro di persone affette da disturbi mentali. Dopo un rifiuto generale a fronte delle difficoltà del gruppo, evidentemente troppo grandi per un approccio tradizionale, l'uomo deciderà di ribaltare la prospettiva, adoperandole per entrare a contatto con ognuno di loro e poter così sfruttarle a pieno per un vantaggio comune.

Il film affronta una tematica estremamente delicata in un modo ancora più rischioso, perché dietro la favola umana dal sapore agrodolce c'è un messaggio politico molto forte, perché punta dritto alle chiusure culturali e ideologiche un pensiero italiano spesso reazionario e difficilmente incline ad aprirsi ad un cambiamento sociale molto profondo e che avrebbe aperto le strade al futuro del nostro Paese da lì a poco.

Habemus Papa (2011)

Michel Piccoli di fronte a Moretti nel film Habemus Papam
Nanni Moretti e Michel Piccoli in Habemus Papam.

Se si dovessero intercettare i tre autori italiani che, tra tutti, hanno fatto della psicanalisi un ingrediente fondamentale della propria opera filmica, questi sarebbero, senza dubbio, Massimo Troisi, Carlo Verdone e Nanni Moretti. Se però nel prima essa era uno dei tanti ingredienti che servivano a rimpolpare una visione destrutturante della società, della cultura, dell'arte e dell'uomo italiano del Novecento, negli altri due questa è stata spesso una ossessione. Forse perché parliamo di nomi che, ispirandosi molto al cinema alleniano, hanno fatto dell'autonarrazione e dall'autoanalisi il principale faro artistico.

Habemus Papam di Nanni Moretti ha rappresentato un salto in questo senso per il regista Palma d'oro, che proprio dopo La stanza del figlio, vincitore sulla Croisette, torna a vestire i panni di uno psicoanalista, stavolta mettendo un disturbo psicologico al centro della pellicola, per di più legata alla figura apicale di uno di questi sistemi di poter che hanno spesso negato l'efficacia di tale scienza. Il titolo non è però un semplice ritratto iconoclasta.

Moretti utilizza la psicoanalisi per parlarci del tabù legato all'accettazione del senso di inadeguatezza e al peso della solitudine. La crisi depressiva del papa di Michel Piccoli è una ribellione contro l'isolazionismo ideologico che arriva a negare addirittura ciò che ha mosso i suoi primi passi: la fede. La riscoperta della propria spiritualità diventa la riscoperta di se stessi e delle proprie fragilità in quanto essere umano. La psicoterapia come strumento per trovare Dio.

La pazza gioia (2016)

Ecco di nuovo Francesca Archibugi, stavolta però nelle vesti di sceneggiatrice al fianco di Paolo Virzì per un film che è sorto nella mente del regista livornese mentre lavorava (a detta sua) sul set de Il capitale umano, ispirato dal momento di maternità dell'allora sua moglie Micaela Ramazzotti. Uno spunto dal mondo femminile per un film ambientato nel mondo femminile e per il quale serviva, ça va sans dire, una penna femminile.

La pazza gioia: Micaela Ramazzotti e Valeria Bruni Tedeschi insieme in una scena del film
Le due protagoniste de La pazza gioia.

La pazza gioia illumina la tristezza diagnosticata. Quella con cui troppo facilmente i dottori usano come divisorio tra chi ne è affetto e chi no, oppure, per essere più precisi, tra chi lascia che essa si esprima e chi invece la sopprime attraverso usi vari ed eventuali. Una divisione a cui si oppongono le protagoniste, Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella (proprio Micaela Ramazzotti), la cui amicizia diviene un'arma di liberazione, sia pratica (con la fuga dalla casa di cura) sia metaforica, alla ricerca di una gioia a loro vietata.

Uno scopo comune per un disagio comune, unico elemento che lega due protagoniste diverse in tutto. La cosa più interessante del film di Virzì, a netto delle mille didascalie che pervadono tanto la struttura filmica, quanto la descrizione della malattia, è proprio l'utilizzo del disturbo mentale come livellatore, prima sociale e poi umano. In questo modo esso diventa il simbolo di uguaglianza, che va dal femminile fino all'umanità in quanto tale, dentro e fuori da case di cura e a prescindere dalla propria estrazione sociale.

Marylin ha gli occhi neri (2021)

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Una scena di Marilyn ha gli occhi neri.

Da una doppia coppia all'altra, stavolta vi parliamo della terza fatica del duo composto da Simone Godano e Giulia Steigerwalt con protagonista il duo composto da Stefano Accorsi e Miriam Leone. Questi ultimi in delle vesti inedite, che prevedono il denudarsi del loro aspetto trendy per diventare dei freak veri e propri, dimostrando così al mondo come alla fine è tutto una questione di percezioni (si può essere benissimo l'una e l'altra cosa allo stesso tempo). E di fatto Marilyn ha gli occhi neri proprio di percezione parla.

Diego è un grande chef, nonostante un forte disturbo ossessivo-compulsivo, una gestione della rabbia fortemente e il vizio di dire sempre ciò che pensa, preferibilmente in modo violento, almeno così dice la sua ex moglie. La sua vita cambia quando, in una casa di cura, incontra Clara, una ragazza con la sindrome di Tourette e, soprattutto, una bugiarda patologica, non a caso dice a tutti che è un artista di successo. Due modi di difendersi dalla realtà completamente diversi, ma che hanno in comune l'autoghettizzazione. L'idea di un finto ristorante di successo diverrà il modo di riappropriarsi di ciò che la società ha tolto loro.

Andando oltre l'idea di come il disturbo mentale possa essere visto come un modo per comunicare, la pellicola di Godano ci dice come essa ci metta alla prova nella misura in cui inclina la nostra idea di noi stessi e, di conseguenza, del resto del mondo, che invece è spesso molto più superficiale, malato e fragile di quando possono pensare coloro che a quello stesso mondo sono visti come i più fragili. Una grande lezione sul rapporto con noi stessi che utilizza il disagio come chiave di volta.

Extra: C'era una volta la città dei matti (2010)

Una scena della miniserie di Rai Fiction C'era una volta la città dei matti
Vittoria Puccini e Fabrizio Gifuni in C'era una volta la città dei matti.

Come extra in questa lista vi suggeriamo C'era una volta la città dei matti, il film tv Rai diretto da Marco Turco e scritto, tra gli altri, da Alessandro Sermoneta basata sulla vita dello psichiatra Alessandro Basaglia, portato in scena da Fabrizio Gifuni. Il racconto si concentra ovviamente sulla vicenda che portò alla legge 180/78 e alla chiusura dei manicomi, ma dice anche molto suii motivi di tale scelta, fatalmente legata ad una percezione del disagio mentale e, soprattutto, del trattamento del disagio mentale repressiva, violenta e mortificante. Oltre i documentari sull'argomento, un valido titolo fiction per ricordarci come eravamo messi in Italia solamente qualche tempo fa.