Allora in tutti questi anni avremmo potuto essere amiche?
You Mean All This Time We Could Have Been Friends?: la frase che dà il titolo all'episodio finale della prima stagione di Feud ha una duplice risonanza, in quanto corrisponde alla celeberrima battuta pronunciata da Jane Hudson sulla spiaggia, all'indirizzo della sorella Blanche, nel tragico epilogo di Che fine ha fatto Baby Jane?. L'horror psicologico di Robert Aldrich, un cult del cinema degli anni Sessanta, costituisce il motore narrativo della prima metà di Feud: Bette and Joan, che tuttavia non si è limitato a offrirci il "dietro le quinte" di un tassello fondamentale nella filmografia delle sue protagoniste, Bette Davis e Joan Crawford.
Negli ultimi quattro degli otto episodi della serie, infatti, la narrazione delle parabole professionali di Bette e Joan è andata oltre il classico di Aldrich del 1962, mettendo in scena altri capitoli famosissimi della faida Davis/Crawford: dalla famigerata notte degli Oscar dell'8 aprile 1963 alla travagliata lavorazione di Piano... piano, dolce Carlotta, l'altro horror al femminile di Aldrich che avrebbe dovuto riunire Bette e Joan ancora una volta insieme sul grande schermo, ma che avrebbe segnato invece la definitiva rottura del loro rapporto... per arrivare, con il season finale, all'ultima fase della carriera (e della vita) delle due leggendarie dive della Golden Age di Hollywood.
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"And the winner is..."
Nel commento alla première della nuova serie TV della FX, prodotta, co-diretta e co-sceneggiata, con il solito tocco inconfondibile, da un ispiratissimo Ryan Murphy, avevamo sottolineato il carattere di guilty pleasure di Feud: Bette and Joan, pressoché inevitabile considerando la materia narrativa al cuore dell'intreccio. Ma per fortuna, nel corso delle sue otto puntate Feud ha dimostrato di essere anche e soprattutto altro: e se i primissimi episodi, Pilot e The Other Woman (ma non solo quelli), hanno puntato in primis sull'elemento del catfight, gli autori della serie sono riusciti a evitare derive camp stile Mammina cara (ma nel finale non manca una menzione per Christina Crawford) per puntare piuttosto sull'esplorazione degli stati d'animo, delle ambizioni e delle frustrazioni di queste due donne di mezza età costrette a convivere con il proprio statuto di icone e a battersi con ogni mezzo pur di conservare qualche bagliore della luce dei riflettori.
A tale proposito, risulta particolarmente significativo quello che, con buona probabilità, è il miglior episodio in assoluto della serie, o quantomeno il più godibile: And the Winner Is... (The Oscars of 1963), una puntata dedicata al cento per cento all'edizione degli Academy Award che vide la Davis alla sua decima (e ultima) candidatura come miglior attrice grazie a Che fine ha fatto Baby Jane?, con la Crawford esclusa dalla cinquina e tutt'altro che rassegnata a restarsene relegata al semplice ruolo di spettatrice. Fra invenzione e realtà (ma l'invenzione, in questo caso, ha davvero poco spazio), assistiamo dunque alle strategie ordite dalla Crawford assieme alla maliziosa cronista Hedda Hopper (Judy Davis), alla brevissima apparizione di Sarah Paulson nei panni dell'attrice Geraldine Page e alla cerimonia degli Oscar vera e propria, con Joan pronta a rubare la scena alla collega salendo sul palco per ritirare la statuetta per conto di Anne Bancroft, al cospetto di una Bette Davis paralizzata dalla delusione e dalla collera.
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La perfetta ricostruzione della serata degli Academy Award (basti confrontare l'episodio di Feud con i vari filmati di repertorio), la serrata alternanza fra l'annuncio dei vincitori e la tensione crescente nel backstage, passando per il lungo, magistrale piano sequenza di Ryan Murphy alla regia, che segue la Crawford dalla consegna dell'Oscar per la miglior regia a David Lean fino al momento clou del premio per la miglior attrice: venti minuti di una cerimonia di premiazione costruita come un thriller, in cui la celebrazione dell'iconografia hollywoodiana si fonde con la rappresentazione del suo "lato oscuro", vale a dire quei meccanismi vampiristici e logoranti che costringono perfino le più grandi star a fare i conti con lo scorrere del tempo e con il terrore dell'oblio.
"Feuds are never about hate"
Due aspetti che assumono una funzione preminente nella seconda metà della serie: quando Bette e Joan, una volta assorbito il clamoroso successo di Che fine ha fatto Baby Jane?, devono riprendere a fare i conti con l'età che avanza, con un'industria che spinge la Crawford a cimentarsi in B-movie di dubbio gusto e a comparire in pubblico brandendo una mannaia (Cinque corpi senza testa, con un cameo di John Waters nella parte del regista William Castle), la Davis ad accettare qualunque proposta le venga offerta e a scimmiottare il personaggio di Baby Jane in televisione. Il fenomeno della cosiddetta hagsploitation, noto pure come grande dame guignol, diventa così l'emblema della vena di sadismo insita nello show business, declinata spesso in chiave misogina e ageista, ma non solo: fra un episodio e l'altro assistiamo ad esempio alle umiliazioni subite da Robert Aldrich (un ottimo Alfred Molina) da parte dello spregiudicato mogul Jack L. Warner (Stanley Tucci) e al crescente senso di inadeguatezza e di abbandono sperimentato dalla Crawford.
In quest'ottica, in Feud: Bette and Joan la simmetria del titolo viene incrinata dalla focalizzazione del racconto, decisamente sbilanciata a favore di Joan Crawford: la vulnerabilità della star de Il romanzo di Mildred, l'amara consapevolezza di possedere un talento inferiore a quello della Davis, le sue umili origini e la necessità di mantenere quanto più possibile il controllo su una bellezza ormai 'autunnale' sono le chiavi di lettura scelte dagli autori e da Jessica Lange per restituirci la loro versione del personaggio. E la Lange, che con Murphy aveva già fatto faville in ben quattro stagioni di American Horror Story, qui ci regala un'altra performance da standing ovation, piazzandosi in prima fila per i prossimi Emmy Award: enfatica e teatrale, come richiesto da copione, ma attenta a non andare quasi mai sopra le righe (pur con qualche eccezione) e capace di sprigionare un pathos logorante nei momenti di crisi della Crawford.
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"It was wonderful... and it was never enough"
A costituire un perenne modello di confronto, ma anche un ideale 'specchio' ai tormenti di Joan Crawford e alla sua parabola discendente, è non a caso Bette Davis medesima, come Feud sottolinea nel penultimo episodio, Abandoned!, attraverso un dialogo a cuore aperto fra le due attrici. "Come ci si sentiva a essere la ragazza più bella del mondo?", domanda la Davis, e la risposta carica di nostalgia della Crawford è la seguente: "Era meraviglioso... e non era mai abbastanza". Subito dopo, è Joan a rivolgere alla collega un interrogativo analogo, "Come ci si sentiva a essere la ragazza più talentuosa del mondo?", ottenendo da Bette un'identica risposta. La faida al centro della serie, in fondo, non è che il prodotto dell'incontro/scontro fra due donne - e due dive - troppo simili per non riconoscere l'una nell'altra i propri punti deboli, pur senza osare ammetterlo. E la volubilità della Crawford trova così un contraltare nella brutale schiettezza e nel tagliente cinismo di Bette Davis (si vedano, nell'ottava puntata, le frecciate malevole scagliate contro Katharine Hepburn e Faye Dunaway), tramite una Susan Sarandon che riproduce vezzi e tratti distintivi della protagonista di Eva contro Eva.
You Mean All This Time We Could Have Been Friends?, che si apre alcuni anni dopo il disastro sul set di Piano... piano, dolce Carlotta, segna la pagina più malinconica della serie, con la rievocazione dell'ultimo decennio nella vita di Joan Crawford: la fine ingloriosa (l'horror Trog - Il terrore di Londra) di una straordinaria carriera, la solitudine autoimposta, una decadenza al contempo fisica e mentale che culminerà in una toccante scena onirica, con la riappacificazione solo immaginaria fra le due dive, sedute allo stesso tavolo. Mentre Bette Davis commenta con una frase impietosa (pronunciata anche nella realtà) la notizia della morte della rivale: "Non si dovrebbe mai parlar male dei morti, ma dire solo del bene. Joan Crawford è morta. Bene". Eppure, nonostante l'odio malcelato e reciproco, in quel momento lo sguardo di fuoco della Davis (e della Sarandon) lascia trapelare anche qualcos'altro: la drammatica coscienza della fine di un'epoca, destinata ad essere riassunta in appena una manciata di secondi durante il segmento In memoriam degli Oscar. La cognizione dell'abisso, contro il quale neppure la fama più splendente può funzionare come appiglio. E il rimpianto, affidato all'ultimo, commovente flashback, per un'amicizia che non si sarebbe mai realizzata...
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4.0/5