Riavvolgiamo il nastro. È il 2001. Anzi, è l'estate del 2001. Tutto doveva ancora accadere. Da lì a qualche settimana il mondo sarebbe cambiato, e di conseguenza saremmo cambiati noi in relazione a ciò che effettivamente avevamo attorno. Un sentimento di fugace sospetto generalizzato, e la sensazione di aver assistito a qualcosa di irreversibile. Tuttavia, attorno a quella drammatica data di settembre, viaggiava parallela una produzione cinematografica sapientemente equilibrata tra il digitale e l'analogico. Erano gli anni dei Nokia 3310, dei modem in 56K (ma qualcuno già parlava di ADSL!), del Festivalbar e del grande calcio spagnolo. Erano anni di scoperte, di mode passeggere, di improvvisazione sociale nonché artistica: l'alba del postmodernismo, dell'attuazione concreta di ogni inflessione proveniente dai mitici 90s.
Ed erano gli anni di un cinema che si sfidava, a colpi di generi (spesso tagliati con l'accetta), a colpi di incassi (stratosferici), a colpi di sperimentazioni e di blockbuster. Così, partito in sordina, e senza far troppo rumore (nonostante i rombi delle automobili), per poi esplodere in un fenomeno globale, assistevamo all'ascesa di un'assurda e inaspettata saga cinematografica, incentrata tanto sui motori quanto e soprattutto sulla famiglia. E oggi, a ventidue anni dal primo capitolo, diretto da Rob Cohen, non c'è più dubbio: la saga di Fast and Furious ha cresciuto (almeno) una generazione. Il motivo? Molto semplice: con dieci film all'attivo (anzi, undici se consideriamo lo spin-off Fast & Furious - Hobbs & Shaw), l'enorme show ispirato ad un articolo di giornale è sempre stato presente e costante, restando fedele a se stesso e restando fedele agli spettatori.
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La famiglia di Dom? Anche un po' la nostra...
Vent'anni in cui la famiglia di Dominic "Dom" Toretto alias Vin Diesel è diventata anche un po' la nostra. Crescevamo, sbagliavamo, cadevamo e ci rialzavamo. Andavamo a scuola, pensando già all'università, superavamo l'esame di guida, ci sentivamo imbattili e insuperabili, intanto che sullo sfondo dei ricordi continuava a correre la leggendaria Dodge Charger del 1970, tagliando verticalmente un'avventura che sarebbe poi diventata via via più esagerata, esasperata, eccessiva, irrinunciabile. Pur mantenendo fede al suo credo, forgiato con il fuoco: vivere "un quarto di miglio alla volta". Insomma, la Dodge nerissima e arrabbiata di Dominic era lì, presente. E con lei, in un beffardo e maledetto incrocio, la Nissan Skyline di Brian O'Conner, quell'agente sotto copertura con il volto indimenticato di Paul Walker, e divenuto un vero e proprio fratello per Toretto.
Un incrocio cinematografico, quanto reale: Dom e Brian, e poi Letty (Michelle Rodriguez), Mia (Jordana Brewster), Han (Sung Kang), Tej (Ludacris) e Roman (Tyrese Gibson), fino a Luke (Dwayne Johnson), Shaw (Jason Statham) e Megan (Nathalie Emmanuel). Una famiglia disfunzionale che non ci ha mai tradito, ma che invece è riuscita a rendere davvero protagonista il pubblico, sempre più appassionato e sempre più unito. Del resto, il grande show di F&F, oltre che sulla velocità, si basa proprio sui concetti empatici, tra affetti e fratellanza, tra il rispetto e la libertà di essere fuori legge e fuori posto, in un mondo che spinge all'omologazione e all'obbedienza. Ecco: la saga di F&F rifiuta l'omologazione, fin dal principio, sottolinenando il concetto proprio per mezzo delle automobili modificate: sgargianti, ingombranti, fuori moda, corsare.
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Un quarto di miglio alla volta
Dunque, tornando indietro, e voltando lo sguardo, le tappe di Fast & Furious equivalgono al nostro personale percorso. E non è un caso. Perché quando uscì Fast and Furious (ma il titolo originale è The Fast and the Furious), nessuno avrebbe potuto scommettere sulla durata del franchise, in quanto sembrava destinata ad un pubblico ampio ma non troppo: le corse automobilistiche, suggerite da un reportage giornalistico incentrato sulle gare illegali per le strade di New York, e il mondo colorato del tuning, apparivano fin troppo cafonal per durare nel tempo. Chi scrive, all'epoca appena adolescente, ricorda con affetto gli adesivi NOS appiccicati sulle marmitte modificate dei motorini, così come ricorda con affetto gli imbarazzanti spoiler posteriori montati sulle utilitarie. Chiunque avesse un minimo di dimestichezza con il mondo dei motori, aveva trovato in Dominic Toretto un vero e proprio punto di riferimento.
Lo stesso punto nevralgico successivamente evoluto all'interno dello show: pilota, bandito, eroe proletario, padre di famiglia, archetipo di quell'epica essenziale per ogni grande ciclo narrativo che possa considerarsi grande racconto. Un racconto che ha spaziato e si è allungato, ha girato il mondo (Fast X di Louis Leterrier, per esempio, è ambientato a Roma, ma siamo volati da Los Angeles a Rio de Janeiro, da New York a Tokyo) e si è fatto amare e si è fatto apprezzare anche da coloro che l'avevano inizialmente ignorato o svalutato. Il motivo? Semplice: ci siamo resi conto che l'unica filosofia di vita possibile è proprio quella di vivere un poco alla volta, godendoci l'attimo sospeso di un abbraccio o di un sorriso.
Dom non ci ha mai voltato le spalle, e noi abbiamo accettato il suo accento sbruffone e la sua espressione sghemba. L'abbiamo accettata, e capita. Perché? Perché Fast & Furious è un cinema che non ha mai rinnegato le sue origini. A dimostrazione di quanto la saga abbia subito messo in chiaro le cose: nessuna sovrastruttura, nessun orpello. Puro intrattenimento. Intrattenimento nobile e disinteressato, schietto e meravigliosamente popolare. In fondo, la famiglia serve proprio a questo: mostrarci la strada, sorreggere il nostro sellino, ed ecco che ci (ri)troviamo adulti, graffiati eppure in piedi, con il piede in bilico sul freno e sull'acceleratore, con il cuore verso l'orizzonte e gli occhi sullo specchietto retrovisore.