Quella del Far East è una rassegna che si è ormai conquistata un posto di tutto rispetto nell'ambito dei festival europei: nata nel 1999 come piccola realtà dedicata ad un cinema che non trovava posto né nei circuiti di distribuzione ufficiali, né nei festival più blasonati (Venezia, Cannes, Berlino), questa "vetrina" sul cinema del sud-est asiatico è cresciuta di anno in anno, fino a costituire l'appuntamento più importante, a livello europeo, per l'approfondimento di un cinema che si distacca tanto dai modelli di intrattenimento statunitensi, quanto dalle strutture prettamente autoriali europee: un "terzo polo" che, pur nelle sue enormi differenziazioni interne, nelle sue soventi contraddizioni e nei suoi alti e bassi qualitativi, costituisce una miniera di fondamentale importanza per chi voglia avere, sul cinema, uno sguardo a 360 gradi, senza limitazioni di tempo o di spazio e realmente onnicomprensivo.
La sesta edizione del festival, svoltasi come sempre a Udine all'interno del Teatro Nuovo, è stata per noi il primo contatto diretto con il Far East: tuttavia, conoscendo, dalle cronache ufficiali e dalle semplici chiacchierate con amici e addetti ai lavori, un minimo di "storia" delle edizioni passate, ci è possibile fare qualche considerazione sull'evoluzione di questa importante kermesse e sui suoi possibili scenari (e rischi) futuri. Rispetto alle ultime edizioni del festival, e in particolare all'ultima, questo appuntamento di Udine si è caratterizzato per una leggera flessione qualitativa nell'ambito dei film in concorso, e per una maggiore differenziazione nella proposta: accanto alle pellicole più di genere, mirate all'intrattenimento (che sono, è bene ricordarlo, quelle per cui il festival è nato), si sono viste più proposte riconducibili ad un universo "autoriale", apparentemente lontano dal DNA del Far East ma che comunque occupa una fetta importante della produzione asiatica, contemporanea e non: questo appare evidente dai due "omaggi" che il festival ha voluto dedicare ad autori come Jun Ichikawa e Zhang Yuan, registi discussi, non sempre e non completamente apprezzati dal pubblico abituale del cinema orientale, ma comunque di fondamentale importanza per comprendere alcune delle tendenze della produzione asiatica contemporanea. Un'evoluzione (derivata anche da una certa flessione nella produzione più prettamente di genere nell'ultimo anno) che è stata vissuta da alcuni come l'inizio di un "tradimento" degli obiettivi originali del Far East, ma che ha comunque contribuito ad avvicinare al festival altre tipologie di pubblico: si dovrà aspettare la prossima edizione, probabilmente, per capire quanto questa "apertura" abbia fatto bene, in termini di pubblico, al Far East, e quanto il festival possa continuare ad ampliare i suoi orizzonti, e ad evolversi, senza per questo arrivare a snaturarsi.
Per quanto riguarda i dati più prettamente numerici, la proposta di marca Hong Kong è stata ancora una volta quella numericamente più consistente (con 11 titoli), seguita da quella sud-coreana (anch'essa di grande vitalità negli ultimi anni), con 10 pellicole, e da quella giapponese, che ha contato 7 film. I giudizi del pubblico sembrano aver momentaneamente premiato le scelte degli organizzatori: ad aggiudicarsi il premio è stato il giapponese The Twilight Samurai, già candidato all'Oscar 2004, mentre al secondo e terzo posto si sono piazzati rispettivamente il coreano Tae Guk Gi (costosissima produzione già campione d'incassi in Corea del Sud) e il cinese Nuan, curatissimo dramma che ha per argomento l'amore e la perdita dell'innocenza.
Vediamo di analizzare con ordine, comunque, la proposta del festival, iniziando dai tre percorsi monografici per approdare ad un resoconto cronologico delle giornate di Udine.
Retrospettiva Chor Yuen:
Una monografia di fondamentale importanza, questa dedicata al regista hongkonghese, utile per cominciare a ricreare una "memoria storica" del cinema di Hong Kong, e per capire che molte delle proposte che gli appassionati hanno tanto amato negli ultimi due decenni hanno radici lontane, seppur ingiustamente ignorate da più parti. Regista che ha diretto i suoi film più imporanti negli anni '60 e '70, meno celebrato di altri maestri hongkonghesi dell'epoca quali King Hu e Chang Che, Chor Yuen è stato autore di oltre 100 pellicole, spaziando praticamente in tutti i generi possibili, dal wuxiapian al fantasy, dalla commedia al melodramma. La selezione del Far East (composta da 11 titoli), ha mostrato la grande versatilità di questo eccezionale artigiano del cinema hongkonghese, con un violentissimo wuxiapian quale Killer Clans (con combattimenti ottimamente coreografati, di straordinario impatto estetico per l'epoca), una originale commedia con venature noir come In my dream last night, melodrammi puri come Tear-laden Rose e Winter Love, a tratti ingenui ma esteticamente elegantissimi (la Hong Kong in bianco e nero ha un impatto visivo tutto da scoprire), e prodotti più ibridi come Intimate confessions of a chinese courtesan, film di arti marziali condito da un'inedita componente erotica, comunque visivamente curatissimo e profondo nel tratteggiare il carattere della protagonista femminile, caratteristica rara per i prodotti di genere dell'epoca.
Un plauso quindi a chi ha voluto questa retrospettiva, che rende giustizia ad un regista importante ma finora "sepolto", anche nel ristretto ambito dei cultori del cinema di Hong Kong.
Omaggio a Jun Ichikawa:
L'altro interessantissimo "omaggio" del Far East di quest'anno è stato quello dedicato al regista giapponese Jun Ichikawa: classe 1948, proveniente dalla pubblicità e allievo dichiarato del maestro Yasujiro Ozu, Ichikawa ha costruito negli anni uno stile personalissimo, con uno sguardo sull'universo urbano nipponico che, pur non nascondendo le parentele con Ozu, rivela un modo di fare cinema fresco e originale, e soprattutto estremamente malleabile.
Il primo film di Ichikawa proposto a Udine è stato Busu (l'esordio del regista del 1987), storia di una ragazza che sogna di diventare una geisha, tra situazioni familiari e scolastiche tutt'altro che facili. Un film lento ma suggestivo, sicuramente interessante per come usa la storia della protagonista per tratteggiare un contrasto tra modernità e tradizione da sempre presente nella società nipponica. Il giorno successivo è stato proposto Tokyo Marigold (2001), altro ritratto di solitudine urbana, con un'altra giovane protagonista alle prese con un amore "a tempo": solitudine, alienazione e ricerca disperata dell'altro, in un film dolce ma non conciliatorio, vero e coinvolgente. Il capolavoro di Ichikawa è stato presentato invece il 26 aprile, e si intitola Dying at a hospital (1993): film strordinario, rigoroso e incredibilmente lucido, getta uno sguardo neutro e mai compiaciuto su una corsia di ospedale in cui sono presenti malati terminali. L'alternanza delle sequenze nell'ospedale (rigorosamente riprese frontalmente con la camera fissa) e di altre scene ambientate all'esterno, con momenti di vita quotidiana ripresi dal vivo nelle strade di Tokyo, crea un contrasto che fa scaturire un coinvolgimento reale, un'empatia nei confronti dei personaggi di Ichikawa che ha pochi eguali nel cinema degli ultimi decenni. Un film toccante senza essere enfatico, di grande valore estetico ed emozionale, cinema nel senso più alto del termine. Lo sguardo "urbano" del regista è confermato nel successivo, sincopato Tadon and Chikuwa, che consiste di due episodi con protagonisti rispettivamente un tassista e uno scrittore in crisi: lo stile realistico del regista vira qui al grottesco, ma non manca il vigore e soprattutto lo spessore, con una parte finale che ricorda per certi versi il cinema di David Lynch.
Omaggio a Zhang Yuan:
Tre film (di cui uno addirittura in anteprima mondiale) per un regista per anni considerato l'enfant terrible del cinema della Cina popolare, con film molto censurati dal regime e una parallela, crescente popolarità nel circuito dei festival europei. I film proposti a Udine sono quelli successivi al grande successo di Diciassette anni, film che ha segnato per Zhang la svolta con il Leone d'oro alla regia al Festival di Venezia del 1999 e la scelta di lavorare all'interno del sistema produttivo cinese. Il primo film presentato al Far East, I love you (2002), è una storia d'amore urbana ben girata, ben fotografata ma sostanzialmente mancante di mordente. La scelta di mostrare esplicitamente alcuni episodi di violenza domestica è sicuramente coraggiosa, specie all'interno di un sistema di censura così rigido come quello cinese, ma l'operazione sembra fredda, teorica, mancante di coinvolgimento. Va meglio con il successivo Green Tea (2003), splendidamente fotografato da Christopher Doyle, un'altra storia d'amore intrisa di ambiguità in una Pechino straordinariamente moderna. Il film è una commedia giocata sui meccanismi che portano all'attrazione, visivamente di gran fascino e impreziosita da buone interpretazioni da parte dei due protagonisti. Chiude il mini-percorso monografico l'anteprima mondiale di Jiang Jie (2004), rappresentazione in chiave musical degli ultimi giorni di vita dell'omonima leader rivoluzionaria, considerata la "Giovanna d'Arco cinese" e giustiziata dal Kuomintang nel 1949. Il film è assolutamente, squisitamente teatrale, con la camera costantemente fissa su set minimali e una stilizzazione estetico-canora che rimanda all'Opera di Pechino: resta la difficoltà, per lo spettatore occidentale, nel rimanere coinvolto da un'opera tanto ambiziosa quanto ermetica (ne sono conferma i numerosi spettatori che hanno lasciato la sala prima della fine del film), tutta basata su meccaniche di coinvolgimento che trovano probabilmente una loro ragion d'essere solo tra il pubblico locale, e che non sempre sono strettamente legate al mezzo cinematografico. Interessante per certi versi, ma, ancora una volta, freddo e autoreferenziale.
E passiamo, ora, all'analisi in ordine cronologico dei film in concorso, con alcuni inevitabili "buchi" nel programma (non è stato possibile seguire tutte le pellicole presentate) che tuttavia non impediscono la costruzione di un quadro sufficientemente esaustivo di quella che è stata questa sesta edizione del Far East.
Venerdì 23 aprile:
Dopo la proiezione dei già citati Busu e I love you nel pomeriggio, e l'apertura ufficiale del festival, con tanto di buffet e di opening gala alla presenza del sindaco di Udine e del presidente della regione, il Far East entra nel vivo con il film coreano Dance with the wind, proiettato alle 20. Il film, grande successo in patria ed esordio alla regia per Park Jung-Woo, è una commedia che narra di un ballerino e di una poliziotta che ha il compito di incastrarlo come gigolo ma finisce prevedibilmente per restarne coinvolta. Gustoso ed intrigante per la fresca comicità e per il modello atipico, non cronologico della narrazione, il film soffre tuttavia un'eccessiva lunghezza e una sceneggiatura non sempre equilibratissima. Giudizio comunque complessivamente positivo, per le trovate comiche a tratti irresistibili e per una generale impostazione da commedia intelligente, che indaga nel "razzismo" culturale di cui erano vittima i ballerini nella Corea del Sud fino a pochi anni fa.
Il film successivo è il cinese Cell Phone, diretto da Feng Xiaogang (uno dei registi in assoluto più popolari in Cina): si tratta di una commedia di costume originale ed intelligente, che usa lo spunto di partenza (un presentatore televisivo diviso tra moglie e amanti, che usa ossessivamente il cellulare per comunicare con entrambi) per una riflessione sulla tecnologia e sul suo uso ossessivo, che finisce per influire negativamente sui rapporti umani. Scritto benissimo e impreziosito da un'elegante fotografia, il film diverte e intrattiene con intelligenza, mantenendosi sempre in equilibrio tra commedia e satira sociale.
Saltata la proiezione di mezzanotte, che proponeva il giapponese Kisarazu cat's eye, ci prepariamo alla giornata successiva, in cui il festival inizierà ad entrare nel vivo.
Sabato 24 aprile:
Dopo le proiezioni mattutine di Killer Clans e Tokyo Marigold, rispettivamente legate agli omaggi a Yuen e Ichicawa, alle 14.30 è la volta del coreano The road taken, dramma storico che narra la storia vera di Kim Sun-myung, che fu prigioniero per oltre 40 anni nelle carceri sud-coreane per le sue idee comuniste. Il film è narrato con uno stile scarno, realistico, senza orpelli: cinema di impegno civile e politico, per una storia rimossa dalla memoria collettiva coreana messa in scena con passione e partecipazione, e una riflessione sulla necessità della coerenza nonostante le conseguenze che essa può portare (il protagonista sarebbe potuto uscire dal carcere con una formale abiura delle sue idee, abiura che egli rifiuta costantemente di fare).
Alle 16.30 viene proiettato uno dei titoli più attesi del festival: si tratta dell'hongkonghese Running on Karma, nuovo lavoro della casa di produzione Milkyway (fondamentale per i suoi noir della fine degli anni '90) firmato da Johnny To e [PEOPLE]Wai Ka-Fai[/FILM]. Il film è un singolare ibrido di buddismo, muscoli, arti marziali, noir e fantastico: non sempre equilibratissimo, risulta comunque più profondo di quanto potesse lasciar presagire la trama (un culturista ex-monaco che vede nel futuro e cerca in tutti i modi di salvare una poliziotta dal terribile destino che ha visto per lei), e recupera un'idea tipicamente hongkonghese di contaminazione e di intrattenimento "estremo", ma di spessore, che sembrava un po' persa nelle produzioni cantonesi degli ultimi anni.
Alle 20 viene proiettato il già citato Green Tea, seguito da un altro titolo di punta del Far East: si tratta di Infernal Affairs II, secondo episodio (ma si tratta in realtà di un prequel) della saga poliziesca di maggior successo del cinema hongkonghese degli ultimi anni. Il film risulta più epico e complessivamente più riuscito del suo predecessore, con un respiro maggiore (la vicenda si svolge tra il 1991, il 1995 e il 1997) e un notevole approfondimento dei personaggi interpretati da Anthony Wong ed Eric Tsang, rispettivamente capo della polizia e boss delle Triadi, già fondamentali nel primo episodio ma assurti qui a veri protagonisti. I due offrono due caratterizzazioni eccellenti, coadiuvati da un altro grande attore hongkonghese come Francis Ng, che non è loro da meno nel ruolo di un boss rivale di Tsang. La regia sicura di Andrew Lau ed Alan Mak sottolinea abilmente i momenti più coinvolgenti della storia, risultando efficace e di grande impatto.
La proiezione di mezzanotte (che proponeva il thailandese Buppha Ratree) preferiamo ancora una volta saltarla, per prepararci al meglio alla giornata successiva, che si preannuncia anch'essa ricca di proposte interessanti.
Domenica 25 aprile:
La giornata si apre alle 9.30 con The Black Rose, facente parte della retrospettiva dedicata a Chor Yuen, e prosegue con Infernal Affairs III, che chiude la trilogia con un vero e proprio sequel, sempre diretto da Lau e Mak e con il ritorno ai loro ruoli di Andy Lau e Tony Leung Chiu Wai. Un sequel atipico ma riuscito: il film si svolge infatti a cavallo degli avvenimenti narrati nell'originale, con continui salti avanti e indietro nel tempo che lasciano spiazzato chi si aspettava il ritorno a una struttura lineare analoga a quella del primo episodio. Il film invece complica la storia e introduce nuovi personaggi, ma soprattutto sorprende lo spettatore con la sua struttura frammentata e atemporale: scelta derivata probabilmente dall'esigenza di far tornare di nuovo sullo schermo, insieme, Andy Lau, Tony Leung, Anthony Wong ed Eric Tsang, ma che ha rappresentato alla fine una scommessa vinta, visto che la sceneggiatura, pur complessa, risulta equilibrata e senza sbavature. Diretto anch'esso con grande senso del ritmo e della tensione, con una regia che ben si adatta alla sua atipica struttura, il film è la degna conclusione di un'ottima saga, inferiore al capitolo precedente ma attestato comunque su livelli qualitativi più che buoni.
La giornata prosegue alle 14.30 con il già citato Jiang Jie diretto da Zhang Yuan, e con la gustosa commedia coreana Singles, intelligente e vigoroso ritratto di un gruppo di trentenni alle prese con problemi sentimentali e lavorativi. Il film coinvolge in virtù di una messa in scena semplice, di trovate comiche di grande efficacia e di un gruppo di interpreti bravi e simpatici: intrattenimento intelligente, quindi, che diverte mantenendo un tono "leggero" ma senza per questo rinunciare allo spessore.
Un'altra commedia apre la fascia serale delle 20: si tratta questa volta di un film hongkonghese, intitolato Truth or dare: 6th floor rear flat, opera prima della regista Barbara Wong che fa uno spaccato a metà tra il grottesco e il nostalgico della gioventù di Hong Kong. Una commedia realizzata con stile tipicamente cantonese, a tratti grottesca e addirittura triviale, ma comunque più profonda di quanto potrebbe apparire a una visione superficiale, con una sottile aura di malinconia sempre presente, in sottofondo.
La serata prosegue poi con il coreano Once upon a time in high school: spirit of Jeet Kune Do, ibrido non molto riuscito tra dramma sociologico, action movie, commedia e storia d'amore: nel narrare la storia di un gruppo di giovani che vivono la violenta realtà scolastica coreana, il film non trova l'equilibrio giusto e finisce per scontentare gli amanti di tutti i generi sopra citati, soffrendo inoltre di una regia piatta ed anonima.
La serata si conclude con la proiezione di mezzanotte, che ha offerto il curioso Showa Kayo Daizenshu, commedia splatter giapponese che mostra un'improbabile scontro tra una banda di teenager e un gruppo di casalinghe. Il film è inizialmente divertente ma finisce alla lunga per stancare a causa di una certa ripetitività e di una generale "stanchezza" nella sceneggiatura. Comunque un film curioso e, almeno nella prima parte, abbastanza godibile.
Lunedì 26 aprile:
La proiezione con cui si apre la giornata è quella di In my dream last night, sempre per l'omaggio a Chor Yuen, alle 9.30, seguita dalla commedia hongkonghese in costume Elixir of love diretta da Riley Ip. Il film di Ip, incentrato su una principessa affetta da una misteriosa malattia che fa sì che il suo corpo emani cattivo odore, è una tipica commedia "made in Hong Kong", con un ritmo indiavolato e trovate comiche a ripetizione, spesso ai limiti del triviale. Curiosa l'opera di "esorcizzazione", fatta da chi ha scritto la sceneggiatura, di una paura ormai lasciata alle spalle dagli hongkonghesi: il morbo che affligge la giovane principessa si chiama infatti (in inglese) Severe Acute Reeking Syndrome.
La giornata prosegue alle 14.30 con il già citato, splendido Dying at a hospital, e con il filippino Keka, curiosa versione "cattiva" e giocosa di Kill Bill: incentrato su una ragazza che elimina a uno a uno gli assassini del suo fidanzato, innamorandosi nel frattempo, sfortunatamente, di un poliziotto, il film è ben girato, divertente e deliziosamente amorale. Le premesse sono piuttosto esili, ma le trovate del film e la sua cattiveria lo salvano dall'anonimato.
La fascia serale si apre con l'ultimo film dell'omaggio a Ichikawa, Tadon and Chikuwa (che era anche in concorso), e prosegue poi con The legend of the evil lake, cappa e spada sudcoreano di evidente derivazione hongkonghese. Grande dispiego di mezzi, effetti speciali in computer grafica non sempre riuscitissimi, per un incrocio tra La tigre e il dragone, Storia di fantasmi cinesi e The bride with white hair con in più qualche venatura horror. Una messa in scena scolastica e una regia piatta, che evita accuratamente gli eccessi visivi dei film a cui si ispira, fa sì che il film resti nell'anonimato, un prodotto di medio livello da vedere e dimenticare in fretta.
La proiezione di mezzanotte offre il delirante Gagamboy, sorta di versione filippina di Spider-Man diretta dal simpatico Erik Matti. Il film diverte all'inizio, ma il gioco di parodia/omaggio virato al trash non regge per più di mezz'ora, a causa soprattutto di una sceneggiatura davvero esile.
Martedì 27 aprile:
Dopo la proiezione delle 9.30 di Tear-laden rose per l'omaggio a Chor Yuen, viene proposto l'unico vero horror della rassegna: si tratta del coreano The uninvited, diretto da Lee Su-yeon. Il film è una storia di fantasmi, visioni e drammi familiari rimossi: visivamente suggestivo, generalmente inquietante, soffre però di qualche "buco" di sceneggiatura che ne pregiudica la qualità complessiva. Tutto sommato, comunque, un altro buon horror proveniente da un paese che ultimamente ha dato un contributo apprezzabile al genere.
La fascia pomeridiana si apre con un altro film dedicato alla retrospettiva su Chor Yuen, ovvero Winter love, e prosegue con il cinese The coldest day, diretto da Xie Dong. Allievo di Zhang Yimou, Xie dirige il film (storia di un quadrilatero amoroso) con grande eleganza formale, con una buona padronanza di regia e una fotografia volutamente fredda, basata su toni neutri che accentuano il carattere intimista della storia. Una storia che coinvolge proprio in virtù della semplicità con cui è raccontata, con un modello forse più vicino al cinema europeo che a quello locale.
Alle 20 viene proposto uno dei titoli più attesi del festival, che sarà giustamente premiato dal pubblico: si tratta di The Twilight Samurai, dramma in costume su un guerriero stanco che vuole dedicarsi alla sua famiglia e alla madre malata, ma viene costretto a impugnare di nuovo la spada. Diretto con grande rigore dal veterano Yoji Yamada, con un respiro epico (che non difetta di momenti più intimisti) affine ai film di Akira Kurosawa, il film è straordinario a livello visivo ed emozionale, un affresco potente su una società in disfacimento e sulla dignità di un uomo che continua a vivere, nonostante tutto, seguendo i suoi valori. Probabilmente il più bel film visto quest'anno a Udine.
La serata prosegue con il thailandese The Bodyguard, gustosa parodia del cinema d'azione di Hong Kong e soprattutto degli action urbani di John Woo (con un protagonista che addirittura ricorda fisicamente il regista di The Killer). Il film non ha grosse pretese, è bidimensionale nei personaggi e ovviamente ben poco credibile, ma si lascia guardare grazie a una buona regia e a una serie di gag comiche molto gustose.
Alle 00.15 viene proiettata la commedia hongkonghese Dragon Loaded, grande successo al botteghino cantonese, che rientra però nella nostra lista dei non visti.
Mercoledì 28 aprile:
Dopo l'apertura mattutina con Mad Woman, sempre per la retrospettiva su Chor Yuen, viene proposto il poliziesco cantonese Heroic Duo, diretto da Benny Chan e interpretato da volti noti come Ekin Cheng, Leon Lai e Francis Ng. Il film è una produzione a grosso budget, è diretto con buon mestiere ma soffre di una confezione patinata che lo allontana dai migliori esempi del cinema d'azione di Hong Kong: un nuovo esempio della recente, acritica "rincorsa" del cinema cantonese ai modelli di film di genere statunitensi.
Alle 14.30 viene proiettato un altro dei film migliori del Far East: si tratta del giapponese The hunter and the hunted, diretto da Izuru Narushima e interpretato tra gli altri da Koji Yakusho, che molti ricorderanno nei film di Kiyoshi Kurosawa. Il film è una commedia che racconta l'amicizia, dipanata negli anni, tra un poliziotto e un ladro professionista, con una narrazione che si fa apprezzare per la freschezza e il tono dolceamaro sotteso a una struttura da commedia classica. Un film che diverte "dicendo" cose serie, una di quelle pellicole che riconciliano col cinema.
Il successivo Bridal Shower è un'altra commedia, questa volta di marca filippina, che narra di tre donne, executives nel mondo della pubblicità, alle prese con problemi amorosi di vario genere. Il film ha un buon ritmo, e non delude per la rappresentazione di un tessuto sociale caotico e l'esplorazione dei meccanismi dell'attrazione; una commedia piacevole meno "leggera" di quanto potrebbe apparire.
Alle 20 viene proiettato quello che diventerà in breve uno dei film più discussi di questa edizione del Far East: si tratta del cinese Baober in love, diretto dalla regista Li Shaohong, una coloratissima ed eccessiva versione "in acido" de Il favoloso mondo di Amelie. Il film ha uno stile "pop" e straordinariamente vitale, del tutto innovativo per il cinema della Cina popolare, e fa entrare completamente lo spettatore nello stralunato mondo della protagonista, tra voli sognati, paesaggi urbani alterati e colori sgargianti. Un sogno a occhi aperti che verso metà film si trasforma in un incubo, con un brusco cambio di registro che può essere forse l'unico difetto da imputare al film. Restano da premiare il coraggio e la straordinaria creatività, soprattutto se si considera la lontananza dai tratti culturali "classici" della cinematografia di appartenenza.
La serata prosegue con un film di Hong Kong, una nuova commedia intitolata Men suddenly in black: diretto da Pang Ho-cheung (e preceduto da un gustosissimo cortometraggio dello stesso regista, proposto a sorpresa), il film è una parodia del genere gangsteristico di Hong Kong, con un gruppo di uomini sposati che organizza un complicatissimo piano per ingannare le rispettive mogli, con un'organizzazione ferrea e una determinazione che ricordano ciò che si è visto in numerosi film sulle Triadi di Hong Kong. Interpretato da un Eric Tsang che rifà scherzosamente il verso al suo personaggio della saga di Infernal Affairs, il film è divertente ma non tiene alla distanza, soffrendo di una certa ripetitività nelle gag e di una mancata tenuta nel ritmo comico.
La giornata si chiude con la proiezione di mezzanotte, che propone il poliziesco coreano Wild Card, film dal buon ritmo ma privo di particolari guizzi di regia, che nulla aggiunge e nulla toglie alla routine di tante altre produzioni analoghe (nazionali e non) recenti.
Giovedì 29 aprile:
The house of 72 tenants apre la giornata alle 9.30, proseguendo la retrospettiva su Chor Yuen, mentre a seguire viene proiettato uno dei più grandi successi giapponesi di sempre: si tratta di Bayside Shakedown, poliziesco tratto da una serie TV di grande successo in patria. Guardando il film, che mescola elementi drammatici, una rappresentazione abbastanza scolastica dell'ambiente della polizia giapponese, e una serie di momenti puramente comici, ci si chiede quali possano essere le ragioni di tanto successo, cosa possa aver spinto il pubblico nipponico a premiare in quella misura un prodotto tanto convenzionale.
Va decisamente meglio con la prima proiezione pomeridiana, che è l'hongkonghese Lost in time: diretto da Derek Yee, è un dramma dolcissimo e toccante, che narra di una donna che perde il marito, conducente di autobus, in un incidente stradale, e fa di tutto per imparare il suo mestiere, per tenerne viva la memoria e contemporaneamente garantire un futuro al figlioletto. Il film soffre a tratti di un impianto eccessivamente melodrammatico, ma risulta comunque vero e sentito, impreziosito da un'ottima interpretazione di Lau Ching Wan nei panni dell'ex-gangster amico della protagonista.
Il pomeriggio prosegue con il giapponese Josee, the tiger and the fish: dramma diretto da Ishiin Inudo, il film racconta la storia d'amore di un giovane e di una ragazza handicappata, usando un registro inedito e coraggioso: non c'è pietismo nei confronti dei portatori di handicap, la relazione tra i due protagonisti è dipinta con colori vividi e a volte torbidi, come qualsiasi altra storia d'amore. Una scelta coraggiosa per un film riuscito, anche se non privo di difetti, con qualche caduta di ritmo e una lunghezza forse eccessiva.
Saltata per ragioni organizzative la proiezione delle 20, che proponeva il coreano ...ING, giungiamo al film delle 22.15, ovvero Bayside Shakedown 2, sequel-fotocopia che nulla aggiunge e nulla toglie al prototipo visto in mattinata, riproponendone struttura e situazioni di base. La valutazione fatta sul primo episodio, quindi, può adattarsi benissimo a questo sequel, che ricalcando pedissequamente il primo film trasmette ancora di più una sensazione di "già visto".
La proiezione di mezzanotte, introdotta da un Tinto Brass autodefinitosi "amico del Far East" per qualche ragione a noi incomprensibile, propone il sudcoreano Sweet sex & love, pellicola erotica spesso ai limiti della pornografia, caratterizzata da una struttura narrativa che è un puro pretesto. Perfettamente in linea con la "poetica" del collega italiano, il regista Bong Man-Dae ha poi offerto uno spogliarello al party successivo alla proiezione del film ("esibizione" poi replicata nella serata successiva), che non ha fatto altro che intristire ulteriormente chi aveva già avuto modo di deprimersi con la visione del film.
Venerdì 30 aprile:
L'ultima, vera giornata del Far East 2004 (ci sarà una "coda" il giorno successivo per gli ultimi due film della retrospettiva su Chor Yuen, The great devotion e The Prodigal), si apre con la consueta proiezione dedicata al regista di Hong Kong (stavolta si tratta della commedia Young, pregnant and unmarried), per seguire con il thailandese The beautiful boxer, da noi saltato per presenziare all'incontro stampa con Johnny To e Wai Ka-Fai (potete leggere [PEOPLE]quiInfernal Affairs, interpretato tra gli altri da un ottimo Anthony Wong, il film è un solido noir, con una struttura molto classica e una tensione sempre sul filo. Nulla di cui essere entusiasti, sia ben chiaro, ma se non altro un esempio di poliziesco attento alle psicologie con una regia che riesce sempre a mantenere alta la tensione.
Il pomeriggio prosegue con il cinese Nuan, diretto da Huo Jianqi, elegantissimo dramma che narra di un amore perduto, rappresentando la corruzione degli affetti e delle persone ad opera del tempo. Visivamente curatissimo, impreziosito da una splendida fotografia, il film risulta intenso ma non conciliatorio: riuscirà ad ottenere, un po' a sorpresa, un ottimo terzo posto nella premiazione finale, che si terrà poche ore dopo.
La sezione serale si apre con un altro film molto atteso, la seconda proposta targata Milkyway presente quest'anno a Udine: si tratta della commedia hongkonghese Turn left, turn right, diretta da Johnny To e Wai Ka-Fai. Tratto da una graphic novel del taiwanese Jimmy Liao, e interpretato dalla coppia formata da Takeshi Kaneshiro e Gigi Leung, il film è una surreale commedia romantica, dolce e coinvolgente, visivamente molto curata. Prima produzione in lingua cantonese della Warner, il film segna il ritorno per la Milkyway di To ad un genere puramente commerciale, ma rappresenta comunque un prodotto ben confezionato e godibile, nonostante i limiti intrinseci legati al tipo di operazione.
Prima dello spoglio dei voti e della proclamazione del vincitore dell'Audience Award, viene proiettato un altro film che aveva generato molta curiosità, il coreano Tae Guk Gi. Dramma bellico incentrato sulla storia di due fratelli costretti a forza ad arruolarsi nell'esercito sudcoreano durante la guerra civile, il film colpisce per lo sforzo produttivo (si tratta della produzione più costosa mai realizzata in Corea) e per l'estrema graficità delle scene di guerra, che, per la loro crudezza, hanno uguali solo nei primi venti minuti di un altro kolossal bellico (occidentale) come Salvate il soldato Ryan. Del film di Steven Spielberg, in effetti, questa pellicola di Kang Je-gyu rappresenta un po' l'equivalente per il cinema della Corea del Sud, sia per l'impatto visivo (che qui comunque è più dirompente, perdurando la graficità delle sequenza belliche per tutto il film), sia per le implicazioni umane della vicenda raccontata, qui incentrata sulla forza dei legami familiari ed affettivi, che resistono alla follia di un conflitto che cambia definitivamente i protagonisti. Un film imponente, bello, magari penalizzato da un'eccessiva lunghezza (147 minuti), ma comunque da vedere per verificare come non solo Hollywood sia capace di coniugare con successo spettacolarità, grandi mezzi e sostanza.
La premiazione finale, che sarà seguita dalla proiezione di mezzanotte ancora una volta dedicata a Chor Yuen (stavolta si tratterà del wuxiapian Intimate confessions of a chinese courtesan), ha acclamato, come già detto, il giapponese The Twilight Samurai come pellicola preferita dal pubblico, seguito proprio da Tae Guk Gi e da Nuan.
I saluti di Sabrina Baracetti, presidente del Centro Espressioni Cinematografiche di Udine e organizzatrice del festival ("Andando avanti ci siamo convinti sempre più della necessità di questa rassegna", ha detto), chiudono un'edizione impeccabile sotto il profilo dell'organizzazione, che comunque ha fatto e farà discutere molto dal punto di vista della proposta. Una proposta, come già detto, più differenziata rispetto a quella degli anni passati, che rispecchia da una parte una necessità di apertura del festival ad altre tipologie di pubblico, dall'altra una flessione produttiva che ha investito un po' tutta l'industria (o meglio le industrie) dell'intrattenimento nel corso dell'ultimo anno, unita alle perduranti contraddizioni di cinematografie che cercano di rinnovarsi (Hong Kong) o che stanno venendo ora alla ribalta (Corea, Filippine). Ci sentiamo comunque, da parte nostra, di dare sicuramente ragione agli organizzatori della rassegna su un punto: il Far East è un punto di riferimento ormai necessario per una grande fetta di amanti del cinema, sia per il suo carattere di unicità (nell'ambito dei festival europei) sia per le dimensioni che ha raggiunto. L'auspicio, ovvio ma non scontato nella sostanza, è che questa rassegna continui ad essere la vetrina globale che è ora, condizione necessaria per una sua lunga sopravvivenza qualitativa e quantitativa.