Entra nel vivo, con la sua terza e quarta giornata, questa diciassettesima edizione del Far East Film Festival: lo fa con un pugno di film dalla qualità ancora altalenante (ma questo è normale), senza mostrare, per ora, un titolo capace di sconvolgere gli animi (ma, per quello, attendiamo fiduciosi la chiusura e la proiezione di The Taking of Tiger Mountain di Tsui Hark) ma iniziando a inanellare generi, tematiche e motivi che da sempre hanno caratterizzato la sua selezione. Così, il focus sul cinema di arti marziali trova il suo naturale complemento nella proiezione di Kung Fu Jungle di Teddy Chan; ma anche in quella di un wuxia insolitamente old style come Brotherhood of Blades.
Così, a Udine si vedono di nuovo i generi, l'approccio popolare, la vitalità di cinematografie che, pur nella varietà delle loro vicissitudini, non smettono di parlare al pubblico: il dramma bellico di Ode to My Father del coreano Jk Youn, la commedia cinese mainland di My Old Classmate, il dramma sociale hongkonghese di Sara, e gli sguardi diversi sulle tematiche del sesso da tre titoli tra i quali possiamo tracciare una sorta di fil rouge: i giapponesi Kabukicho Love Hotel di Ryuichi Hiroki e Make Room di Kei Morikawa, e il singaporiano Rubbers di Han Yew Kwang.
L'Oriente marziale, tra spade, pugni e intrighi politici
Su Kung Fu Jungle, con protagonista un Donnie Yen in grande spolvero, ci siamo già soffermati nella recensione; quello di Teddy Chan, in tutti i suoi limiti, resta un film che porta a naturale compimento "moderno" il focus che il Far East ha dedicato in questa edizione ai kung fu movie hongkonghesi. C'è però un altro titolo che (un po' inaspettatamente) è risultato del tutto in linea con l'omaggio a un certo modo old style di fare film d'azione: a partire dall'ambientazione e dalle modalità di messa in scena, per finire con la sceneggiatura, complessa e ricca di suggestioni e motivi politici. Parliamo, in quest'ultimo caso, di Brotherhood of Blades di Lu Yang: film di produzione cinese ma dall'anima cantonese, figlio di quel cinema wuxia degli anni '60 e dei primi '70 (quello di King Hu e Chang Cheh) che non era stato ancora contaminato dalla commedia della fine del secondo decennio, né dall'approccio fantastico che dominerà nei '90. Non crediamo di esagerare se diciamo che, guardando il film di Lu Yang, sembra a tratti davvero di trovarsi di fronte a una pellicola di quel fortunato periodo: se non nella regia, all'insegna di un realismo e di una sanguignità che cancella quasi del tutto il wire working e i voli tipici del genere, certamente nell'ambientazione, nelle tematiche forti (un'amicizia tra tre guerrieri messa in pericolo dalla politica), nell'aver messo al centro intrighi politici e lotte di potere che si dipanano in una sceneggiatura complessa, ma ottimamente bilanciata. Un film, quello di Lu, che meritava probabilmente una collocazione diversa da quella (inevitabilmente penalizzante) di prima proiezione mattutina.
Quel che resta (tanto) del sesso
Il secondo motivo forte che ha attraversato queste due giornate è quello di tre sguardi peculiari, diversi ma ugualmente originali e divertenti, sulle tematiche del sesso. Tematiche anch'esse non certo nuove per il pubblico del Far East (si ricordi la retrospettiva sui pinku eiga di una delle sue vecchie edizioni) e comunque rappresentanti una parte importante della produzione cinematografica popolare del sud-est asiatico. Tra i tre titoli che prendiamo in esame, quello di maggior spessore è senz'altro il giapponese Kabukicho Love Hotel, proposto nella giornata del 26 aprile, diretto dall'ex regista di pinku Ryuichi Hiroki: un racconto collettivo incentrato su varie vite che si agitano, si incrociano e a volte si fondono intorno (e dentro) un hotel a ore di Tokyo. Hiroki mostra uno sguardo tutt'altro che banale sui suoi personaggi, empatico e disincantato insieme, riesce a bilanciare abbastanza bene le varie storie (malgrado qualche lungaggine) e a non far sentire troppo il peso dei suoi modelli cinematografici (in primis il cinema di Paul Thomas Anderson).
Dal Giappone proviene anche l'insolito Make Room di Kei Morikawa, sorta di "commedia da camera" interamente ambientata nel camerino del trucco del set di un film porno. Quasi un'opera teatrale filmata, quella di Morikawa, praticamente priva di movimenti di macchina e prevedibilmente scevra da scene di sesso: il regista descrive invece, attraverso i loro dialoghi, le vite, gli intrecci e le vicissitudini di attrici, tecnici, truccatrici e regista del film hard che si sta realizzando nella stanza accanto. Un ambiente che Morikawa, a sua volta regista hard, racconta evidentemente dall'interno, così come le sue attrici, tutte facente parti dell'industria del porno; unica eccezione, l'interprete della truccatrice Aki Morita, nel film "guida" e fonte di coraggio per una timida ragazza esordiente.
L'ideale "terzetto" che abbiamo composto si chiude con Rubbers, commedia prodotta a Singapore e diretta da Han Yew Kwang; un prodotto che intreccia, in modo insolito e sospeso tra umorismo locale e approccio surreale, tre storie aventi al centro lo strumento del profilattico. Un prodotto, quello di Han, pensato soprattutto come provocazione in un contesto politico restrittivo come quello singaporiano, certo viziato da limiti di esilità e di necessità di non spingere la provocazione troppo in là, ma non privo di un suo irriverente fascino.
Le altre proposte
Tra le restanti opere viste in queste due giornate al Teatro Nuovo, citeremmo senz'altro (primariamente) il recupero del classico The Tragedy of Bushido di Eitarô Morikawa; pellicola risalente al 1960 raffigurante il tramonto e la corruzione della società dei samurai, attraverso il rito del suicidio rituale e il dramma di un giovane costretto a commetterlo per compiacere i potenti clan locali.
Sulla carta interessante, ma viziato da un approccio troppo esplicito, il dramma Ode To My Father di Jk Youn, epopea di un uomo separatosi dal padre e dalla sorella durante la guerra tra Cina e Corea, che da allora fa di tutto per sacrificarsi per la sua famiglia, senza perdere la speranza di ricongiungersi coi due. Una citazione, pur con un risultato narrativamente non impeccabile, la merita anche Sara di Herman Yau, storia hongkonghese di violenza e riscatto, col confronto generazionale tra due donne dalla storia simile, e l'ostinata volontà della prima di evitare alla più giovane un destino che sembra già segnato. Squilibrato, imperfetto, ma in qualche modo esemplificativo delle attuali tendenze della commedia cinese mainland, si rivela invece My Old Classmate di Frant Gwo: opera che racconta un pezzo di storia cinese attraverso la love story di due giovani, con inserti di umorismo surreale e quasi da manga, che mal si amalgamano col mood generalmente nostalgico che il film vorrebbe esprimere.