A riflettori spenti, finita la grande "sbornia" di pellicole, dei generi più disparati, provenienti dall'estremo oriente, si può e si deve tentare un bilancio conclusivo di questa undicesima edizione del Far East Film Festival: un'edizione che, nelle parole della presidentessa del CEC Sabrina Baracetti, ha rappresentato un po' un "secondo inizio" per il festival friulano, arrivando dopo quella, fondamentale, del decennale, chiamando il Far East a confermare quanto costruito negli anni passati e lottando inoltre con una crisi economica che non ha risparmiato il cinema, anche quello proveniente dall'estremo oriente. Bilancio che, è bene dirlo subito, è più che positivo, confermato anche dall'enorme partecipazione di pubblico, migliaia di appassionati fedelissimi provenienti da tutta Italia (e non solo), e dal calore che questi ultimi tributano ormai da anni a questa manifestazione. Certo, qualcosa da registrare e da rivedere c'è: in primis la questione del Visionario (perché eliminare le comode navette che, fino a poche edizioni fa, facevano la spola dal cinema al Teatro Nuovo e viceversa?) e la scarsa valorizzazione di una retrospettiva importante come quella su Ann Hui, regista tra i più importanti della Hong Kong degli anni '80, che ha presentato a Udine il suo pacato, bel dramma familiare The Way We Are ; e a questo proposito ci si chiede anche perché si sia scelto di limitare l'iniziativa ai lavori televisivi della regista, considerata anche la durata limitata, cinque giorni su nove, della retrospettiva. Qualche proiezione ha fatto registrare anche una sovrabbondanza di posti riservati in platea (nel film di apertura Ong Bak 2 coprivano la quasi totalità del settore) costringendo molti spettatori a scomode visioni nelle gallerie superiori.
Peccati veniali, comunque, è bene sottolinearlo. Il Far East ha offerto, anche quest'anno, una panoramica realmente a 360 gradi della cinematografia asiatica, accostando opere autoriali ad altre di natura popolare, svelando in modo chiaro i meccanismi produttivi (su cui qualunque industria degna di questo nome dovrebbe basarsi) che permettono anche di finanziare film di qualità attraverso le opere più commerciali e di genere. La parte del leone, quantitativamente, l'ha fatta quest'anno la selezione giapponese, con tredici titoli che ben riassumono lo stato di un'industria che poco ha risentito della crisi, con opere destinate soprattutto (rilevanti eccezioni a parte) al mercato locale: l'esempio più calzante, e nel contempo il più audace, è il colossale Love Exposure di Sion Sono, un'opera di 237 minuti su un Giappone visto attraverso una lente deformante e straniante, un'odissea di vizi e cultura pop sotto forma di satira iperrealista, divertente, complessa, stratificata. Non per tutti, certo il film ideale per dividere il pubblico (anche e soprattutto quello di Udine) ma anche un'opera imprescindibile, uno dei veri "piatti forti" della selezione del festival. Su un versante diverso, Departures ha conquistato il pubblico strappando applausi e soprattutto i due premi principali (l'Audience Award e il Black Dragon Award) rivelandosi opera in grado di parlare alla mente e al cuore di qualsiasi spettatore, locale nel soggetto eppure estremamente classica nella narrazione e nella costruzione filmica. Un blockbuster come K-20: Legend of the Mask mostra come le produzioni nipponiche possano essere contaminate da elementi occidentali, qui più improntati all'intrattenimento, senza perdere la loro specificità, mentre l'atteso Yattaman di Takashi Miike non ha fatto altro che mantenere, e bene, le promesse che lo caratterizzavano: divertimento puro, nostalgia e fedeltà alla serie originale, con l'estro di un genio come Miike messo al servizio di un'opera orgogliosamente votata all'intrattenimento. Drop si è rivelata una divagazione interessante sul genere delle gang giovanili (sulla falsariga del Crows 0 già diretto dallo stesso Miike) mentre il pop colorato e deragliante di opere come Instant Swamp e Fish Story ha convinto solo a tratti. Stesso discorso si può fare, da un versante diverso, per i realistici Climber's High e The Triumphant General Rouge, ineccepibili tecnicamente ma spesso noiosamente piatti a livello registico. Da segnalare, in positivo, il sofiacoppoliano One Million Girl Yen, road movie delicato, intelligente, poco conciliatorio.La cinematografia di Hong Kong ha risentito senz'altro maggiormente della crisi, unitamente a una difficoltà (anche a causa della censura) a proporre produzioni che coinvolgessero i capitali della Cina continentale: nonostante ciò, l'epopea marziale di Ip Man ha colto nel segno, a cominciare dalle furiose scene di combattimento, mentre titoli come The Beast Stalker e Connected (raro esempio, quest'ultimo, di remake hongkonghese di una pellicola americana - il recente Cellular) avranno fatto credere a molti di ritrovarsi nel ventennio d'oro dell'action hongkonghese, quello tra gli anni '80 e i '90. Da segnalare anche il ritorno di Herman Yau con una pellicola come True Woman For Sale, magari non originalissima ma narrativamente divertente e sincera negli intenti.
Nella proposta della Cina continentale, la cui produzione è stata condizionata, nel 2008, dall'evento-clou delle Olimpiadi, spicca la "trasferta" del maestro hongkonghese Tsui Hark con il colorato All About Women, il divertente e furbo Crazy Racer, l'interessante e problematico The Equation of Love and Death, diretto da uno dei registi più interessanti degli ultimi anni come Cao Baoping. Proprio di Cao è stato proposto anche, come evento speciale, il thriller politico Trouble Makers, che lo staff del Far East non riuscì a portare a Udine nel 2006: film anch'esso interessante, ma probabilmente penalizzato dalla collocazione a fine festival (Yattaman di Miike era terminato da poco). Le commedie Desires of The Heart e If you are the One hanno convinto poco, penalizzate da eccessivi ammiccamenti al nuovo pubblico, più disimpegnato, del cinema cinese; mentre The Story of the Closestool è un prodotto di segno opposto, classicamente mainland, ma ugualmente privo, in sostanza, di mordente.
La Corea del Sud ha portato a Udine una selezione variegata di pellicole, in cui spicca principalmente il furioso "oriental western" The Good, The Bad, The Weird di Kim Ji-Woon, sentito e divertito omaggio al nostro Sergio Leone. A Frozen Flower è un sontuoso (melo)dramma in costume che deve molto all'epica shakespeariana da una parte, e all'estetica degli ultimi film di Zhang Yimou dall'altra; mentre The Accidental Gangster è uno squilibrato mix di wuxia e commedia, che cerca di rifare il verso al maestro hongkonghese Stephen Chow ma riesce spesso, purtroppo, ad annoiare. Nella selezione vanno comunque ricordati titoli come la commedia Scandal Makers (un po' a sorpresa seconda classificata nell'Audience Award) e soprattutto il bel My Dear Enemy, storia d'amore giocata sottotraccia, narrativamente intelligente, visivamente affascinante.
Una delle note più positive di questa undicesima edizione del Far East è venuta comunque dalla selezione indonesiana, che ha gettato un po' di luce su una cinematografia negli ultimi anni estremamente vitale, anche se limitata da una situazione produttiva non delle migliori. Il poetico melodramma The Rainbow Troops si è rivelato tra i film migliori dell'intera manifestazione, ma apprezzabili sono stati anche il dramma a sfondo sociale (a episodi) Chants of Lotus, il thriller psicologico Fiction. e l'inquietante horror (forse la proposta migliore dell'Horror Day di quest'anno) The Forbidden Door. In questi ultimi due casi, ha sorpreso, in positivo, soprattutto la capacità dei rispettivi registi di adattare la limitatezza dei mezzi alle proprie esigenze espressive, usando in entrambi i casi un digitale "povero" in grado di contribuire alla costruzione di un'atmosfera onirica e iperrealista. Anche l'altro horror di marca indonesiana Takut: Faces of Fear, composto da microepisodi di circa un quarto d'ora l'uno, si è rivelato vincente pur nella qualità altalenante dei suoi segmenti, sempre grazie a un'estetica povera, indipendente (sfacciatamente legata al cinema americano degli anni '70 negli ultimi due episodi). Meno convincente si è rivelato Radit & Jani, storia di due "ribelli senza causa" che nella parte finale cede al melodramma più "urlato" risultando poco convincente e credibile. Per quanto riguarda la proposta di marca tailandese, la parte del leone l'ha fatta il focus sul Muay Thai, che ha visto il suo titolo di maggior richiamo nel sequel Ong Bak 2, ancora interpretato da Tony Jaa, ma ha giocato le sue carte migliori con l'adrenalinico Chocolate, esempio straordinariamente fisico di film di arti marziali virato al femminile. Da segnalare anche l'horror a episodi 4BIA, notevole in almeno tre dei suoi quattro segmenti, e l'intelligente commedia Best of Times.Il contributo del cinema di Singapore si è limitato al poco convincente, derivativo horror Rule #1, mentre Taiwan ha portato al Far East l'interessante e fortunato Cape No.7, commedia romantica incentrata sui temi dell'amore e della memoria. Sul fronte filippino è almeno da segnalare il dramma sociale Caregiver, incentrato sul difficile tema dell'emigrazione, mentre lo storico Baler e il romantico My Only U hanno peccato entrambi, nei rispettivi generi, di una certa convenzionalità.
Complessivamente, come si diceva in apertura, non si può comunque che tracciare un giudizio più che positivo su questa edizione della manifestazione friulana, che ancora una volta è riuscita a mediare tra le esigenze del pubblico (equamente diviso tra appassionati, scopritori e semplici curiosi del cinema orientale) e degli addetti ai lavori, mantenendo la sua natura autenticamente popolare. Una vera e propria "festa" (la cui formula dovrebbe forse essere d'esempio a chi, in passato, ha usato questo termine un po' a sproposito, per manifestazioni che di popolare avevano ben poco) che si è giovata di un'organizzazione ormai più che collaudata, che ha fatto ancora una volta della varietà della proposta il suo punto di forza principale. Non resta che dare l'appuntamento a tutti a fra un anno, sperando che le istituzioni pubbliche sappiano valorizzare e sostenere un festival come questo in modo ancora più convinto e significativo.