Con la recensione di Fantasy Island, nuovo horror distribuito dalla Sony, diamo ufficialmente il via a ciò che molti appassionati di questo genere attendono: l'inizio della stagione griffata Blumhouse, casa di produzione che negli ultimi dieci anni ha reinventato il brivido americano sul piano produttivo e commerciale, ottenendo grandi risultati al botteghino con spese volutamente contenute (salvo eccezioni particolari legate a co-produzioni, il massimo consentito per un soggetto originale è un budget di 5 milioni di dollari, mentre per i sequel si può arrivare al doppio). E mentre aspettiamo la nuova versione dell'Uomo Invisibile e il ritorno di Michael Myers, il 2020 della Blumhouse inizia con un'altra reinvenzione di un titolo esistente.
Fantasy Island è, infatti, il remake in chiave horror dell'omonima serie TV (nota in Italia come Fantasilandia) che andò in onda dal 1977 al 1984. La storia ruotava intorno all'isola del titolo, gestita dal misterioso Mr. Roarke (Ricardo Montalban) con l'aiuto dell'assistente Tattoo (Hervé Villechaize). A pagamento, i visitatori potevano esprimere qualunque desiderio, a una sola condizione: una volta avveratasi, la fantasia doveva raggiungere la propria conclusione naturale. Questo significava, il più delle volte, che le scelte degli ospiti avevano conseguenze non del tutto positive, dalle quali i diretti interessati imparavano qualcosa di importante sul piano morale. Roarke era solito intervenire qualora le cose degenerassero in modo eccessivo, ma non ci fu mai alcuna spiegazione circa la sua natura o quella dell'isola; lo stesso Montalbán, intervistato al riguardo anni dopo la chiusura dello show, disse di aver avuto una sua teoria personale, in base alla quale Roarke era un angelo caduto e l'isola una sorta di Purgatorio.
Vivere e morire sull'isola
Nel film non c'è alcuna dimensione propriamente metafisica come quella suggerita da Montalbán, e non c'è neanche Tattoo. C'è però Roarke, interpretato questa volta da Michael Peña, e lo vediamo mentre accoglie un nuovo gruppo di ospiti (tra cui Lucy Hale, Maggie Q e Ryan Hansen), tutti vincitori di un concorso. Ad ognuno di loro è concesso un desiderio, ciò che vogliono di più al mondo: c'è chi vuole rivivere un momento importante, chi vuole sentirsi un eroe, chi vuole vendicarsi di un bullo dei tempi del liceo. Come nella serie originale, la regola è una sola: quando la fantasia si avvera, essa deve raggiungere la sua conclusione naturale. Conclusione che può essere poco piacevole, come suggeriscono il misterioso liquido nero che gocciola nell'albergo e l'uomo che si aggira furtivo nella giungla (Michael Rooker). E se alcune fantasie non fossero fatte per avverarsi?
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Brividi originali (?)
I titoli di testa sottolineano la partecipazione della Blumhouse in modo esplicito, riportando il nome della casa di produzione al fianco del titolo del film. Una scelta ponderata, che da un lato riflette le aspettative del pubblico nei confronti di un prodotto simile (salvo rare eccezioni come Whiplash, lo studio fondato da Jason Blum si occupa quasi esclusivamente di produzioni horror) e dall'altro sottolinea la particolarità del lungometraggio rispetto alla fonte seriale, dove il paranormale era presente ma senza connotazioni esplicitamente da brivido. E l'idea di adattare in questo modo lo show del 1977 è molto interessante, perché è la rielaborazione logica delle implicazioni più estreme della premessa. In altre parole, è un adattamento fedelmente infedele, con tanto di riflessione - un po' distorta, va ammesso - sulla moralità. Certo, siamo lontani dal contenuto sociopolitico di altri horror recenti usciti dalla scuderia Blumhouse, ma sul piano puramente teorico questo è un modo intrigante e intelligente di portare al cinema una serie televisiva del passato.
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Peccato che ciò rimanga puramente teorico, perché al netto delle interpretazioni molto solide (Peña sarebbe la scelta ideale per un revival catodico dello show), l'operazione fa acqua - contaminata - da più parti, a causa di una sceneggiatura inutilmente contorta che fa i propri comodi con le regole dell'isola (e qui il paragone con le scelte narrative più frustranti di Lost, che è un discendente indiretto della serie originale, è inevitabile) e della regia approssimativa di Jeff Wadlow, che riconferma la propria scarsa dimestichezza con gli spaventi, telefonati e spesso stucchevoli. Peccato, perché la rilettura horror nelle mani giuste poteva dare una nuova ventata di energia a una proprietà dormiente, mentre in questo caso è rimasta una fantasia irrealizzata, malgrado le migliori intenzioni di Roarke.
Conclusioni
Chiudiamo la recensione di Fantasy Island con la solita sensazione che ci accompagna dopo la visione della maggior parte degli horror griffati Sony: la premessa buona c'è, il cast che ci si mette d'impegno anche, e alcune sequenze potenzialmente ricche di spunti si palesano. Il tutto è però reso con una piattezza generale che lascia l'amaro in bocca, perché gli elementi promettenti non mancavano.
Perché ci piace
- Michael Peña è carismatico e sottilmente inquietante.
- La location è molto suggestiva.
- La premessa è ricca di potenziale.
Cosa non va
- Gli spaventi veri mancano all'appello.
- La sceneggiatura si fa inutilmente contorta nella seconda metà del film.