Fantasmi da Internet
Tra le tante pellicole del J-Horror che hanno spopolato in occidente (con relativa ondata di remakes), Kairo di Kiyoshi Kurosawa è la meno fruibile, la più ambiziosa e, certamente, la più affascinante. La tematica di fondo non si discosta da quelle tipiche di altre opere della cosiddetta New Wave of Japanese Horror, riguardando anche in tal caso il multiforme (e deviato) rapporto tra gli esseri umani e la tecnologia.
Kurosawa, rispetto, ad esempio, a Hideo Nakata, si allontana dalle avvisaglie di entertainment e raggela la tensione, sfruttando staticamente la macchina da presa e trasformandola così in una sorta di occhio dell'ignoto pronto a scandagliare lo spazio circostante (spesso con inquadrature larghe). I movimenti a schiaffo, le carrellate e la macchina a mano servono solo a non dare tregua ai protagonisti, ad inchiodarli ancor di più al loro essere nulla in un mondo sovraccarico di vuoto. Le ambientazioni sono sempre opprimenti, sia al chiuso (una serra, le abitazioni, una scuola, una sala giochi, una fabbrica abbandonata, una biblioteca, un supermarket, una metropolitana, una nave) e sia nei (pochi) momenti all'aperto. Le sonorità di sottofondo (modem, gracidii digitali) creano un disturbante percorso lycnhiano. La fotografia è satura di tonalità livide e chiaroscurali. L'incedere quasi ipnotico della narrazione (fino alle stranianti visioni apocalittiche del finale) accresce poi il manifesto senso di vulnerabilità esistenziale dei personaggi, la cui solitudine è, in fin dei conti, simile a quella dei fantasmi che infestano la rete informatica.
E' la tragica eguaglianza tra la vita e la morte quella che ci racconta Kurosawa, con la solita visione anti-consolatoria tipica di tanto cinema orientale. L'isolamento globale del mondo moderno è una macchia nera che non può essere cancellata in nessun modo: l'amicizia, la voglia di vivere (Kawashima, il teenager spensierato e a digiuno d'informatica che si rifiuta di pensare alla morte), il solipsismo di coppia (l'inutile fuga di Kawashima e Harue in metropolitana) e la fuga (il viaggio in nave) sono tentativi effimeri. Perché il cuore del destino inesorabile implicito nel progresso non cesserà mai di pulsare, sembra dirci il regista giapponese. E lo fa con un film maturo e stilisticamente ineccepibile, che forse raggiunge l'apice, non più declinabile, nell'intero percorso del J-Horror.