Torino, 1969. Massimo ha nove anni e trascorre un'idilliaca infanzia tra canzoni alla radio e film alla televisione, in costante compagnia di sua madre. Figura centrale della sua vita, a soli 38 anni la donna lo abbandona a causa di un infarto fulminante, lasciando dietro di sé un bambino costantemente imbronciato ed impossibilitato ad accettare pienamente il lutto. Una bara coperta diventa così il casus belli dell'esistenza di Massimo, che inizia da quel momento un'eterna lotta con se stesso e con l'assenza di una figura la cui ombra segue ogni istante della sua vita, dopo averlo salutato per l'ultima volta con la frase "Fai bei sogni", senza mai riuscire a lasciarlo davvero andare. Il tempo passa, Canzonissima si ripete un'edizione dopo altra, fuori dalla finestra il Torino vince ogni partita e gli regala un'anima da tifoso. Tutto questo però non basta, non basta mai ad unire i pezzi di un'esistenza che continua ad avere in sé un drammatico buco nero che sembra risucchiare ogni felicità.
A nove anni, Massimo non si accontenta di sentirsi dire che sua madre è in cielo: tutto quello che sente è che quel cielo sua madre l'ha rapita, gliel'ha portata via - ed è il primo a prendersi le colpe di quell'assenza. Se le prenderà il Paradiso qualche anno più tardi, quando tutto intorno a lui sembra suggerirgli che sua madre è lassù, lì dov'è la luce, e a lui non basta tutta la luce del mondo per raggiungerla. Se le prende suo padre, colpevole di volerla lasciare andare e continuare la sua vita, infine se le prende lui stesso in una lettera, scritta per dovere in risposta ad uno sconosciuto. L'ultima a prendere quella colpa è la sua stessa madre: ci vorranno più di quarant'anni per far capire a Massimo che non è con la colpa ma con il perdono che potrà finalmente a mettere pace nella sua vita e a sopravvivere.
Ogni ragazzo ha una fuga dentro il cuore
La perdita è un dolore più grande dell'assenza: lo sa Massimo Gramellini, che per sublimare la propria ha riempito pagine e pagine d'inchiostro, e lo sa Marco Bellocchio che quell'inchiostro lo ha trasformato in pellicola, con cura e sentimento. Perché non essere mai amati è una sofferenza grande, ma non la più grande: la più grande è non essere amati più. Nel vuoto creato dal conoscere e poi perdere quell'amore Bellocchio muove il suo piccolo protagonista, isolato dal mondo esterno che nel frattempo festeggia capodanni, inneggia alla squadra del cuore, si muove di un moto infinito che è lo stesso delle stelle, dei pianeti e dell'universo intero tranne le quattro mura della casa di Massimo.
Lì il tempo sembra essersi fermato davanti ad una finestra aperta, chiave di volta della malinconica nostalgia del bambino, del ragazzo e dell'adulto. In casa il mondo ha pochi colori, quelli di un attento Daniele Ciprì, e altrettanto pochi movimenti di macchina, che rimangono per lo più negli occhi grandi di Massimo seguendone la crescita senza mai scadere nel melodrammatico patetismo. A Bellocchio va il merito di aver affrontato la storia di Gramellini con grande dignità, lasciando che lo spettatore capisca un passo dopo l'altro che non è solo di un lutto che si sta parlando: dietro la mancanza della figura materna c'è ben altro - la definizione della propria identità, il rapporto con la fede, con le donne, perfino con il ballo. Quell'evento ha condizionato ogni briciola di Massimo e ne ha formato l'uomo che è diventato, grazie a cui Bellocchio ritrova i temi tanto cari al suo cinema e che dimostra di nuovo di saper trattare, materia che torna e assume nuove forme non perdendo la sua identità.
Poiché la realtà si era rivelata una tiranna sanguinaria
Cambiano i volti, ma lo sguardo è sempre lo stesso: da Nicolò Cabras all'espressione scura di Valerio Mastandrea il protagonista evolve davanti ai nostri occhi e si fa uomo grazie alla performance dell'attore, che sembra voler restituire con attenzione il patimento di un uomo a metà, costantemente incastrato tra il muro del suo passato e quello del suo futuro: lo aiuta un'espressone dura ma spesso persa, una fisicità bloccata che si esprime in pochi ma essenziali movimenti, una barba sempre incolta per distrazione più che per vezzo. Nel suo percorso di ricerca entra in scena con incredibile grazia Bérénice Bejo, inaspettata presenza più che armonizzata nel contesto, che stupisce non solo per la perfetta padronanza della lingua italiana ma anche per l'attenzione che regala al suo personaggio, che dipinge con dolcezza e cura. Proprio come per il protagonista Belfagor rappresenta il pauroso personaggio di un'infanzia che si trasforma in un amico pronto a salvarlo dalla follia, anche Marco Bellocchio sembra aver trovato nelle pagine di Gramellini un modo di esorcizzare i suoi stessi demoni, dirigendo forse uno dei suoi film più sentiti, in cui è il sentimento a far da padrone e non più il tormento. E si tira un sospiro di sollievo da ricercare oltre la superficie, oltre lo scontato, tra le pieghe di un'intimità che bisogna solo saper guardare.
Movieplayer.it
3.5/5