Un esordio come Il Sud è niente, per il regista Fabio Mollo, per imperfetto che possa essere, è senz'altro prezioso. Il racconto di una realtà tanto battuta dal nostro cinema come quella dell'Italia meridionale, con un registro così originale (quello del "realismo magico" di garciamarqueziana memoria) è pratica che necessita senz'altro coraggio, voglia di osare e di rompere gli schemi, compresi quelli del cinema "pedagogico" tanto in voga nel nostro paese. Il pubblico di giovanissimi presenti alla proiezione del film, nella sezione Alice nella Città del Festival del Film di Roma, sembra aver apprezzato non poco. Ce ne ha parlato, nella conferenza stampa di presentazione del film, lo stesso regista, insieme alla co-sceneggiatrice Josella Porto, agli interpreti Miriam Karlkvist, Vinicio Marchioni, Andrea Bellisario e Giorgio Musumeci.
C'è un'immagine particolare da cui è partito, per realizzare questo film?
Fabio Mollo: L'immagine di un corpo che cambia è il sentimento da cui siamo partiti: attraverso esso volevamo raccontare una voglia di cambiamento, e una ribellione a una mentalità e ad una situazione. Il cambiamento, nella storia, stava già succedendo: noi ci siamo limitati a fotografarlo. Il titolo è una provocazione proprio verso quella mentalità di rassegnazione che si vede nel film. Quando parlo di sud, non mi riferisco solo a un sud geografico, ma anche a una parte di società considerata inferiore. Le nuove generazioni vogliono ribaltare questa mentalità.
L'abbiamo cercata per anni, e poi infine l'abbiamo trovata proprio al Gebbione, il quartiere di Reggio nel quale sono nato, e in cui abbiamo girato gran parte delle scene. La sua presenza è stata una scommessa, perché non aveva alcuna esperienza né era mai stata su un set: per noi, è stato un innamoramento del suo istinto, un istinto al racconto e alla recitazione, anche se si trattava di una recitazione grezza: ne siamo stati subito attratti, ed è stata una scommessa che ci ha premiato, ce ne siamo accorti fin dal primo giorno di set. Lei aveva, a volte, una voglia di raccontare anche più forte della mia: paradossalmente, in un certo senso, è stata lei a scegliere me e a guidarmi nella costruzione del personaggio.
Miriam Karlkvist: Sono anch'io del Gebbione, e so bene cosa vuol dire soffrire per un posto dimenticato, che in genere viene menzionato solo per cose negative. Mi rendo conto cosa voglia dire rimanere fermi, non avere possibilità di cambiare la propria vita. Questo film è un'esperienza che mi ha dato modo di raccontare, di far vedere ciò che andava fatto vedere, specie per quelli che vengono considerati, appunto, inferiori.
La sua trasformazione sullo schermi è stata radicale, era abbastanza irriconoscibile...
Ogni persona, quando recita, si rifà a delle esperienze fatte: sono vesti che io ho indossato e ho abitato, mi ci sono ritrovata perché sono emozioni che io stessa vivevo.
Vinicio Marchioni: E' uno dei miei ruoli più difficili, per una serie di motivazioni: è un film, più che un ruolo, a cui sono molto legato; ho fortissimamente insistito per farlo, perché sono convinto che il regista sia bravissimo e gli auguro di fare una bellissima carriera. C'è, nella storia, un'incomunicabilità e un dolore fortissimo, quello della perdita di un figlio, il più forte che si può avere. C'è anche una elaborazione e una grande crescita: i ruoli interpretati da Miriam e da me rappresentano, insieme, un tentativo di recuperarsi e di recuperare un dialogo. Il lavoro è tutto interno, intimo: adesso, sinceramente, non saprei nemmeno descriverlo.
Come avete lavorato sul concetto del silenzio, che è un elemento forte del film?
Josella Porto: Sì, il silenzio è proprio il cuore del film. Questa è una storia che rompe il silenzio: abbiamo raccontato il dolore di una perdita, ma anche il dolore di quei ragazzi di 17 anni che, come me, hanno lasciato la loro terra, culturalmente dominata dal silenzio. Ricordo che nella mia infanzia, quando accadeva una morte improvvisa, ci veniva insegnato a non pronunciare mai la parola "morte"; quando c'era un omicidio, ci dicevano di non chiedere niente, di non parlarne, di far finta di nulla. Questo silenzio è proprio la base della mafia.
Fabio Mollo: Questo silenzio e questa omertà sono l'arma più violenta della mafia. L'idea di raccontare la violenza con l'assenza di pistole, da un punto di vista intimo e personale, voleva mostrare come, a essere logorata, fosse la parte più intima delle persone: persino il rapporto padre-figlia, che dovrebbe essere la cosa più naturale del mondo, viene rovinato da questo processo. Ho voluto poi inserire degli elementi di realismo magico, che ci hanno permesso di indagare fino in fondo proprio questa parte intima dei personaggi.
Ci siamo resi conto che proprio questo linguaggio, paradossalmente, ci avrebbe permesso di essere più universali. Raccontare rapporti come quello padre-figlia e sorella-fratello è una pratica universale: il realismo magico ci ha solo permesso di raccontare queste relazioni fino in fondo, abbattendo le barriere. Dopo la proiezione del film a Toronto, nell'incontro col pubblico, mi sono reso conto di quanto gli spettatori fossero stati coinvolti, e di come avevano accolto le emozioni che avevamo raccontato. Il realismo magico ha un'identità nel Sud Italia, è vero, ma è anche internazionale e universale.
Nel film si vede un potere negativo, che è quello della criminalità, ma nessun potere positivo, nemmeno la scuola. I personaggi sono estremamente soli. Perché questa scelta?
Volevo essere onesto riguardo a questo argomento. Il motivo per cui ci siamo ridotti in questa situazione è che siamo soli: ma il cambiamento deve venire da noi, dobbiamo cavarecela da soli, non ci serve un assistenzialismo che venga da fuori e ci salvi. Il messaggio del film è che il cambiamento parte da dentro: la ricerca che i personaggi fanno è in realtà una ricerca di loro stessi.
Ci sono registi che in qualche modo l'hanno influenzata?
Io sono un onnivoro del cinema, quindi sono tanti i registi che mi hanno influenzato. Sono cresciuto guardando molto cinema inglese, principalmente Ken Loach e tutta quella corrente. Quella verità e quell'asciuttezza sono elementi che ho ritrovato fin dalla scrittura di questo film; li ho poi mescolati con l'influenza di registi come Emanuele Crialese, autori che invece lavorano molto sull'aspetto immaginifico.
Giorgio Musumeci: Tanti miei conoscenti mi chiedono: "Ma giù com'è, solo coppola e lupara?" E' ben radicata l'immagine che il sud sia solo quello. Sfatiamo questo mito: la mafia spara solo quando è in difficoltà, mentre normalmente l'arma che usa è il silenzio, è il non dire niente la base sulla quale la criminalità organizzata fonda la sua potenza. Questo è un film non descrittivo, che va osservato per capirne la poesia. Oggi c'era silenzio durante la proiezione, e questo significa che le sue immagini sono arrivate.
Il cinema può avere ancora la funzione di svegliare coscienze? Fabio Mollo: Questo film l'abbiamo fatto perché andava fatto, c'era una necessità di fondo che era quella di comunicare un messaggio. Il messaggio va indirizzato principalmente, anche se non solo, alle nuove generazioni: mi auguro che, nonostante sia un piccolo film, venga visto il più possibile, soprattutto nei posti dove normalmente il cinema non arriva.