Era il 10 aprile 1981 quando la stampa raccoglieva le prime impressioni fuori dai cinema americani dove gli spettatori si erano accalcati per vedere quel film che arrivava forte di una promessa fatta di mistero e avventura, di qualcosa di totalmente diverso da ciò che in quegli anni la settima arte proponeva al pubblico. Era un'epoca di grandi titoli, da Alien ad Apocalypse Now, da Star Wars a Interceptor. La fantascienza dominava incontrastata. Excalibur di John Boorman era, ed è ancora oggi, qualcosa di assolutamente unico non solo nel panorama fantasy ma anche nella storia del cinema di questi ultimi decenni. Oggi Excalibur, a dispetto delle tiepide critiche che ebbe all'epoca, è riconosciuto come una di quelle opere capaci di definire una generazione, di stabilire una svolta estetica e concettuale ma anche come qualcosa che sarebbe stato fondamentale per il percorso artistico di innumerevoli registi nei decenni a venire.
Tra simbolismo e mitologia, tra preraffaellismo e sperimentazione
Chi ha visto quel film, 141 minuti di un'avventura dall'estetica semplicemente fantastica, non l'ha più dimenticato. A conti fatti, è diventato qualcosa di talmente riconoscibile da finire per essere citato in una marea di altre opere venute dopo. Non poteva essere altrimenti visto l'impatto che ebbe sul pubblico giovanile dell'epoca, che non aveva mai avuto nulla di paragonabile a questo film, che unì sperimentazione autoriale alla dimensione kolossal. Lo script, curato da Rospo Pallenberg e John Boorman, era basato sull'immortale Morte d'Arthur del grande Sir Thomas Malory, sugli scritti ed analisi sulle mitologia di James Frazer e Jessie Weston, che portarono Boorman a concepire un iter narrativo in cui la realtà mitologica era di gran lunga più importante della verità storica. Su tutto dominava un'atmosfera in cui oltre che gli scritti sul mitico Re di Camelot acquisiva importanza (soprattutto grazie alla colonna sonora) l'eco della tragedia wagneriana, il Ragnarok norreno di un mondo fatto di magia, trascendenza, di uomini e donne inseguiti dal Dio cristiano. Excalibur per certi versi, fu un film dalle premesse incredibilmente sperimentali, a partire dalla fantastica fotografia di Alex Thomson, che poi avrebbe portato il suo stile anche in fantasy come Legende Labyrinth - Dove tutto è possibile. Quella fotografia, unita agli splendidi costumi di Bob Ringwood e Terry English, furono utilizzate per rendere l'insieme connesso in modo a dir poco straordinario a ciò che avevano dipinto a suo tempo artisti preraffaeliti come John William Waterhouse, Sophie Gingembre Anderson, Dante Gabriel Rossetti o Arthur Huges. Perché questo è stato innanzitutto Excalibur: l'unione di diverse realtà artistiche, tutte però connesse al concetto di nostalgia, di un paradiso perduto e magico, onirico, rappresentato più che da Artù, dal Merlino di Nicol Williamson.
Fantasy e box office: un amore (in)finito?
Anaal nathrakh, urth vas bethud, dokhjel djenve
Già all'epoca, molti sottolinearono come la carta vincente di Excalibur fosse proprio Merlino, a cui Williamson (tra i più grandi attori inglesi del suo tempo) donò caratteristiche a dir poco uniche. Imprevedibile, istrionico, comprensivo, mentitore, astuto e allo stesso tempo ingenuo, si aggirava armato di una saggezza che mai usava come armatura per allontanare gli uomini, quanto piuttosto per aiutarli a comprendere il mondo che li circondava, il "Drago" che dominava e trascendeva ogni cosa. Non deve stupire molto che Boorman si fosse ispirato al Gandalf de Il Signore degli Anelli (di cui cercò per anni di realizzare una versione cinematografica), così come Williamson sia stato un modello di riferimento per Ian McKellen. La regia di Boorman è qualcosa che ancora oggi lascia senza fiato per modernità e fluidità. Le scene di combattimento furono qualcosa di rivoluzionario, reggono tranquillamente il confronto con gran parte di quelle che ci sono state date nel tempo dall'imperante CGI e budget faraonici.
Film assolutamente scevro da ogni dualismo visivo o formale, dominato dai colori vividi di una natura catturata in modo squisito, era però costantemente connaturato anche dalla teatralità sacra. Nascita e morte, vittoria e sconfitta, amore e odio, erano eternamente contrapposti, anche per l'audacia con cui violenza e sesso diventarono predominanti. Il regno di Artù, era stata ricreato da melò sfavillanti e hollywoodiani come Camelot, I cavalieri della Tavola Rotonda, da un film Disney e persino una geniale satira: Monty Python e il Sacro Graal (a cui per altro Boorman si collegò in diverse scene). Per la prima volta, il mondo di Artù fu invece un universo totalmente slegato dal nostro. I personaggi, gli stessi dialoghi, erano caratterizzati non dal realismo di un ipotetico medioevo della chanson de geste, ma ad un'irrealtà che sublimava la fantasia più sfrenata, che ci parlava di un mondo sconnesso dai principi di spazio e tempo, in cui la morte era un sogno, paura e felicità stagioni della vita.
Un'opera connessa alla rivoluzione femminista
I personaggi di Excalibur a prima vista apparivano molto semplici, ma nella realtà, portavano ognuno con sé un messaggio e tematiche tutt'altro che secondarie. Su tutti però, quelli femminili. Boorman le connetté al concetto di trinità, sia pagana che cristiana, manifestatasi anche nel finale funebre di Artù verso Avalon. Igraine (interpretata da Katrine Boorman), presa quasi con la forza dal selvaggio Uther, altro non era che la rappresentazione della donna come vittima, oggetto del desiderio, strumento del piacere. In lei la bellezza diventava casus belli, era una maledizione che le dannava fin dall'alba dei tempi. La Ginevra di Cherie Lunghi era invece un'evoluzione di tale figura, una donna in bilico tra razionalità e sentimento, tra libertà e dovere, costretta ad affrontare il disonore per seguire il suo cuore, prigioniera di un mondo in cui non le era concesso di scegliere chi amare, abbandonata infine anche dal suo Lancillotto.
Infine lei, Morgana, una Helen Mirren di una sensualità assolutamente ineguagliabile, villain vindice e ferale, eppure, a guardarla oggi, appare tutto tranne che un personaggio privo di giustificazioni o di coerenza. Astuta, manipolatrice, assetata di potere quasi quanto di libertà, in fondo non fa altro che vendicarsi costantemente di quel mondo abitato e comandato da uomini violenti, pieni di sé, cerca la vendetta per la sua casata, per il padre, ma soprattutto per la sua libertà e dignità di donna. La stessa Mirren del resto era stata protagonista solo pochi anni prima, di una delle interviste più sessiste e retrograde della storia televisiva, ad opera del giornalista Michael Parkinson. In un certo senso quel ruolo, le permise anche di prendersi una rivincita.
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Un film che cambiò per sempre il fantasy
Ma alla fin fine, i veri protagonisti erano loro due: Artù (Nigel Terry) e Lancillotto (Nicholas Clay). Artù fu qui il Re della leggenda, del nostro futuro e del nostro passato, della restaurazione nel senso più classico ma anche armonioso del termine, non il ribelle di cui ha mistificato Guy Ritchie. Terry lo rese incredibilmente umano, imperfetto, connesso alla gelosia, ai rimorsi, ma non naufrago della sorte come l'irascibile padre Uther, che aveva la viscerala forza selvaggia e caotica di un grande Gabriel Byrne. Guarito infine dal Grail (in questo Boorman lo connetté al mito del Re Pescatore) egli riscopriva la volontà di agire e il proprio ruolo nel mondo. Speculare alla sua eroica figura, simbolo di nobiltà ed altruismo, vi era Lancillotto, meraviglioso crogiuolo di forza, grazie e debolezza, il maledetto dalla sorte, il guerriero perfetto e l'amante più disgraziato di sempre. L'amore cortese qui diventava una sorta di condanna, una ferita mai rimarginata che l'avrebbe condotto alla morte, catena del libero arbitrio, in nome non tanto dell'amore ma di un ideale d'amore.
Palese, però, era anche la dimensione omosessuale nel rapporto tra i due, uniti da un legame nato con le armi ma evolutosi fino al punto di rendere l'uno, l'immagine complementare dell'altro. A 40 anni di distanza, Excalibur può rivendicare il titolo di uno dei più grandi film fantasy di ogni tempo, un contenitore di tematiche e di sperimentazione cinematografica senza precedenti per il genere. Quei 141 minuti lo cambiarono per sempre, aprirono la strada a film come La storia fantastica, Willow, Ladyhawke... su su fino al XXI secolo, alla doppia trilogia di Peter Jackson e a Il trono di spade.