Potremmo dire, risultando velatamente antipatici, che sì, dopo Everything Everywhere All at Once di Daniel Kwan e Daniels Scheinert (o se volete, The Daniels) potete tranquillamente tenervi Matrix, Neo, l'Eletto e i bislacchi sequel via via sfornati. Ma lo scopo di questo approfondimento non è fare polemica o comparazioni varie, piuttosto vuole delineare la potente lucidità dietro al delirio visivo e narrativo di uno dei film più belli del 2022 e, più in generale, tra i più riusciti degli ultimi anni. In barba a chi dice che oggi di novità non ce ne sono. Insomma, basta cercare, approfondire, senza fermarsi al poster pubblicitario: il cinema riserva ancora sorprese meravigliose, benché i tempi cupi dettino una poetica allusivamente oscura. Perché citiamo Matrix, allora? Perché Matrix esiste. Anzi, esistono innumerevoli universi paralleli rigirati e accartocciati in una microscopica venatura della nostra iride: una concezione quasi ancestrale dell'esistenza, dalle marcate sfumature mistiche e trascendentali. Questa volta, però, non ci sono gatti neri e non ci sono occhiali scuri: questa volta la matrice siamo noi, le nostre incrinature, le nostre incomunicabilità.
Se il film delle Wachowski viene citato dai The Daniels (kung-fu compreso) è perché si vuole completamente ribaltare il concetto di sci-fi, e anzi applicarlo ad un contesto davvero quotidiano e davvero riconoscibile. Come fare? Generare un film sul multiverso per parlare, viceversa, di un meraviglioso e fragile rapporto madre e figlia. Tutto qui? Davvero, dietro il tripudio visivo di Everything Everywhere All at Once c'è solo questo? Potremmo rispondervi che non c'è nulla di più profondo nel legame tra una madre e la propria figlia, e che il pretesto assurdo (ma poi chi lo dice che è così assurdo?) altro non è che un valore aggiunto ad un racconto in cui viene fuori prepotentemente il bisogno di amore, di condivisione, di gentilezza. Da qualunque universo tu provenga, qualsiasi sia la tua declinazione parallela e circostanziale.
Everything Everywhere All at Once, la recensione: La vita, gli universi e tutto quanto
Una famiglia sull'orlo della distruzione
Lo sa bene Evelyn Quan Wang, interpretata da Michelle Yeoh, donna sino-americana che, nel giro di un giorno, deve affrontare un accertamento fiscale sulla lavanderia di famiglia, un marito, Waymond (Jonathan Ke Quan, che torna al cinema praticamente dopo I Goonies) che vorrebbe divorziare e soprattutto una figlia, Joy (Stephanie Hsu), che pare non voler più aver a che fare con lei. In mezzo, come fossimo nel pieno del nostro sogno più assurdo, Evelyn viene sconquassata da una (ir)realtà che cambia davanti ai suoi occhi, scoprendo che lei stessa e il mondo intero fanno parte di altri universi dominati da altre leggi e altre caratteristiche. Il suo viaggio, che diventa un viaggio cinematografico portato all'estasi e all'estremo possibile e immaginabile, è intriso di destino, caos e riflessioni e, come scritto nella nostra recensione, diventa il mezzo inaspettato capace di rimettere insieme una famiglia sull'orlo della distruzione. Del resto, ogni storia parte da un nucleo, e il nucleo naturale per eccellenza è quello di una mamma e di una figlia. Eccola qui, dietro la spettacolarità esplosiva, l'idea geniale dei The Daniels, che con Everything Everywhere All at Once scrivono una pagina fondamentale tra le produzioni A24 (con 100 milioni worldwide è il successo maggiore dello studio), spiegando i rapporti umani e le possibilità di cambiamento tramite l'esplicazione dell'assurdo.
Michelle Yeoh e l'sms a Jackie Chan dopo il successo di Everything Everywhere: "La tua sconfitta"
Una mamma e una figlia tra milioni di universi
Rapporti umani che, come accadde in Fight Club di David Fincher (altra pietra miliare che ha influenzato i The Daniels), sono la benzina che accende un fuoco capace di ardere il più puro senso del racconto, estrapolato da un cinema artigianale che non ha paura di giocare con gli stilemi del genere. In questo viaggio spericolato sfumato di lucida follia tutto inizia e tutto finisce con Evelyn e Joy, alle prese con una realtà scadente e un'assuefazione al dolore umano, in cui i legami si affievoliscono e l'amore sbiadisce come sbiadisce il bucato. Ben più in alto, il film finisce per illuminare le differenze generazionali e l'incomunicabilità ordinaria, capace - nella sua prevedibilità alienante - di creare voragini profonde e difficilmente colmabili. Come per dire: ogni silenzio si paga, ogni sguardo corrucciato è sintomo di una velenosa infezione.
È così che Evelyn, trascinata nel bel mezzo di una centrifuga spazio temporale, si ritrova faccia a faccia con le proprie paure e con i propri tormenti, mostrandoci indirettamente la strada da perseguire per accorciare quelle distanze siderali che acuiscono il terrore di perdere ciò che abbiamo di più caro. Esiste terrore più grande? Esiste un pericolo più spaventoso? Perché Everything Everywhere All at Once è l'equazione perfetta di un cinema umano e accessibile, che torna ai sentimenti e al calore, all'unione e alla parola. E, in particolar modo, torna alla forte riconoscibilità, scevra di sovrastrutture e orpelli, puntando dritto al cuore di un abbraccio ritrovato tra milioni di universi sperduti.