Ho ascoltato dalle quinte il pubblico applaudire: sono come ondate d'amore che invadono la scena e ti avvolgono tutta. Che meraviglia, sapere che ogni sera centinaia di persone ti vogliono bene, ti sorridono con gli occhi lucidi, ti ammirano... ti chiamano, ti invocano! Questo è veramente tutto!
Nell'estate del 1950, il film-evento nelle sale americane era Viale del tramonto: un agghiacciante affresco di Hollywood e dei feroci meccanismi dell'industria cinematografica, realizzato con un'inedita commistione fra humor nero, dramma e venature horror. Ad appena due mesi di distanza, il 13 ottobre 1950, a New York viene presentata una pellicola che offre impressionanti analogie con l'opera di Billy Wilder: si tratta di Eva contro Eva, sceneggiato e diretto da Joseph L. Mankiewicz sulla base del racconto The Wisdom of Eve, pubblicato quattro anni prima da Mary Orr. Il bersaglio, questa volta, è l'ambiente del teatro, ma la lucidità e il disincanto nello sguardo di Mankiewicz non risulteranno troppo diversi da quelli di Wilder.
Il fatto che nell'arco di pochi mesi abbia visto la luce una coppia di film del genere è una di quelle coincidenze che non cessano di sorprenderci, neppure a settant'anni di distanza. Perché Viale del tramonto ed Eva contro Eva non sono soltanto i due vertici assoluti del cinema classico americano (presupponendo che la nozione di 'classicità' non sia del tutto applicabile a Quarto potere), ma due capolavori in grado di riflettere, in maniera speculare, sulla natura stessa dello show business, le cui spietate regole diventano un correlativo delle inquietudini e delle ossessioni degli esseri umani; a partire dal doloroso confronto con lo scorrere del tempo e l'angoscia dell'oblio, che accomuna la Norma Desmond di Gloria Swanson alla Margo Channing di Bette Davis.
Il film da record di Joseph Leo Mankiewicz
Nato in Pennsylvania da genitori ebrei emigrati dalla Germania a inizio secolo, e fratello minore di quell'Herman J. Mankiewicz che nel 1941 avrebbe firmato con Orson Welles Quarto potere, Joseph Leo Mankiewicz costituisce uno di quei talenti talmente elevati che andrebbero riscoperti anche al di fuori della cerchia di studiosi e cinefili. Prolifico sceneggiatore per la Paramount e la MGM durante gli anni Trenta, a partire dal 1936 viene 'promosso' produttore e nel 1944 passa alla 20th Century Fox con la promessa di potersi dedicare alla regia. È un lavoratore infaticabile, Joseph L. Mankiewicz: fra il 1946 e il 1949 dirige ben sette pellicole, fra cui un piccolo classico quale Il fantasma e la signora Muir e un gioiello del calibro di Lettera a tre mogli, che gli varrà due premi Oscar per la miglior regia e la miglior sceneggiatura.
Lettera a tre mogli, quadro borghese sulla fragilità dei rapporti familiari, anticipa di un anno Eva contro Eva, che ne recupera l'impianto polifonico e la struttura a flashback (nel frattempo, Mankiewicz gira pure il dramma sul razzismo Uomo bianco, tu vivrai!); il successo sarà immediato e l'entusiasmo della critica unanime. Agli Academy Award, Eva contro Eva stabilisce un record (tuttora imbattuto) di quattordici nomination e si aggiudica sei premi Oscar: miglior film, miglior regia, miglior attore supporter (George Sanders), miglior sceneggiatura, migliori costumi e miglior sonoro. L'opera di Mankiewicz ottiene anche il BAFTA Award come miglior film e, al Festival di Cannes 1951, il Premio della Giuria e il trofeo come miglior attrice per Bette Davis; nel 1970 sarà adattata nel musical teatrale Applause, con Lauren Bacall, mentre nel 2008 le renderanno omaggio perfino I Simpson con la puntata Lisa contro Lisa (due anni prima di un episodio-parodia su Lettera a tre mogli).
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Tutto su Eve (e su Margo)
Se l'ispiratissimo titolo italiano, Eva contro Eva, è ormai proverbiale, l'originale All About Eve (da cui prenderà spunto Pedro Amodóvar per Tutto su mia madre) sottolinea il carattere di anomalo film-inchiesta sul personaggio eponimo: Eve Harrington, la giovane star in ascesa interpretata da Anne Baxter, che nel prologo si accinge a ricevere il prestigioso Sarah Siddons Award. L'azione si interrompe all'improvviso, innescando una serie di flashback evocati da tre diverse voci narranti: Karen Richards (Celeste Holm), la donna che aveva accolto Eve per introdurla nel backstage di un teatro newyorkese; Margo Channing, stella del palcoscenico e oggetto dell'adorazione di Eve; e il critico teatrale Addison DeWitt (George Sanders), osservatore solo apparentemente distaccato delle dinamiche in atto all'interno del circolo di amici e colleghi di Margo.
La pluralità delle focalizzazioni è uno degli elementi-chiave del capolavoro di Mankiewicz, e corrisponde al tentativo di afferrare una realtà - quel "tutto su Eva" del titolo - costantemente offuscata dalla simulazione e dalla menzogna. Eva contro Eva, del resto, è un film sul teatro, e pertanto sull'arte della recitazione come costruzione di un'identità altra, sulla doppiezza elevata a modus operandi per trarre in inganno l'avversario. Margo ed Eve non ci vengono mai mostrate durante uno spettacolo, ma non è necessario: entrambe rimangono attrici anche e soprattutto fuori dalla scena, ed entrambe oltrepassano con disinvoltura (o piuttosto, senza una piena consapevolezza) il confine tra verità e finzione. Eve indossa i panni dell'ingénue timida e generosa, Margo quelli della diva che fatica ad accettare l'età che avanza e spesso prende in prestito le battute dei suoi copioni.
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"Stasera c'è aria di burrasca!"
Attorno alle due protagoniste, Joseph L. Mankiewicz disegna poi una memorabile galleria di comprimari. Alla personalità volitiva di Margo fa da contraltare l'indole più dolce e riflessiva della sua amica Karen, moglie del drammaturgo Lloyd Richards (Hugh Marlowe), trascinata suo malgrado nella partita fra Margo ed Eve, di cui diventerà - senza volerlo - una delle pedine principali. Il regista Bill Sampson (Gary Merrill, quarto marito della Davis), fidanzato con Margo, è l'unico tanto 'istrionico' da sperare di tenerle testa, ma rappresenta per lei pure il simbolo di un'agognata realizzazione domestica ("È la sola aspirazione che tutte abbiamo in comune: essere soltanto donne, essere amate"), mentre alla strepitosa caratterista Thelma Ritter è affidato il ruolo di Birdie Coonan, la burbera domestica di Margo, nonché la sola a diffidare da subito della maschera di innocenza di Eve.
E non è un caso, forse, che i personaggi esterni alla professione teatrale siano quelli più capaci di vedere al di là della superficie e di distinguere il vero dal falso: Birdie, con la sua schiettezza senza fronzoli, e Addison DeWitt, divertito testimone delle bizze di Margo, anticipate talvolta dalla stessa attrice (celeberrima la sua frase "Prendete i salvagente: stasera c'è aria di burrasca!"). George Sanders, premiato con l'Oscar, conferisce a DeWitt una cinica malizia che accentua ancor di più la sua insita sgradevolezza: l'uomo appartiene al mondo del teatro solo in maniera tangenziale, e dunque viene trattato con diffidenza e malcelata antipatia. Ma DeWitt ne è cosciente, e saprà adoperare tale coscienza (in fondo è un critico, e perciò un esegeta della finzione) per mettere sotto scacco Eve, la sua controparte luciferina, facendone la propria alleata ("Noi siamo uguali: entrambi incomprensibili e uniti da un vivo disprezzo per il prossimo").
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"She's got Bette Davis eyes": il ritratto di Margo Channing
La penna raffinatissima di Joseph L. Mankiewicz, che in seguito avrebbe dato origine ad altri magnifici copioni (da La contessa scalza a Masquerade), qui raggiunge un equilibrio impeccabile fra l'ironia e il melodramma. I grandi monologhi e le battute da antologia si alternano alle punchline d'effetto, così come a quelle brevi ma infallibili notazioni già sufficienti a definire un preciso tipo umano: è il caso di Max Fabian (Gregory Ratoff), il produttore ipocondriaco, e di Claudia Casswell, l'aspirante starlette incarnata da una giovanissima Marilyn Monroe. Ma la forza di Eva contro Eva, la qualità che gli ha permesso di superare la prova del tempo meglio di quasi ogni altro film della sua epoca, risiede anche nella vivacità di un intreccio in cui i rapporti fra i personaggi e le loro traiettorie mutano di continuo, come d'abitudine nel cinema di Mankiewicz.
Ma probabilmente, oggi non parleremmo di un film altrettanto leggendario se non fosse per la presenza magnetica di Bette Davis, ingaggiata per rimpiazzare la prima scelta dello studio, Claudette Colbert, dopo un infortunio. La Davis, candidata all'Oscar come miglior attrice insieme ad Anne Baxter, con Margo Channing tocca il punto più alto della propria carriera. La sua recitazione appassionata ed enfatica, la sua impulsività ferina e l'accesa espressività dello sguardo connotano alla perfezione la figura di Margo: una donna che affronta ogni aspetto della sua vita come se fosse su un palcoscenico e che, da allora, avrebbe stabilito un vero e proprio archetipo del cinema hollywoodiano (e non solo). Quando Margo/Bette è sullo schermo, semplicemente, è impossibile staccarle gli occhi di dosso.
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Un'altra Eva contro Eva?
Rispetto alla performance 'infuocata' di Bette Davis, la Eve di Anne Baxter risulta ben più sommessa e sfuggente: la sua cifra identitaria è l'ambiguità, e di conseguenza Eve si mantiene sempre ai margini della scena, al contrario di Margo, senza rivelare mai troppo di se stessa. Pertanto, sono ancora più incisivi i momenti in cui, per una manciata di secondi, Eve abbandona il ruolo della ragazza benevola e insicura per lasciar trapelare una spregiudicatezza senza scrupoli: il modo in cui afferra il braccio di Karen quando si accinge ad intrappolarla nel proprio ricatto, l'occhiata di compiaciuta malignità alla sua compagna di stanza dopo la telefonata a Lloyd (altro indizio a favore delle ipotesi sulla potenziale omosessualità di Eve) e i rabbiosi scambi con Addison DeWitt, laddove la donna si rende conto di aver incontrato un avversario astuto quanto lei.
Nel finale, che si ricongiunge all'antefatto, viene sancito il trionfo di Eve, la sua consacrazione fra le stelle del teatro; eppure, al di là degli applausi e delle parole di elogio, si tratta di una vittoria dal sapore amaro. "Puoi sempre mettere quel premio al posto del cuore che lasci qui", è la chiosa velenosa di Margo: una frecciata contro l'arrivismo del mondo dello spettacolo che fa il paio con il sarcasmo implacabile di Viale del tramonto. E l'ultima scena, con la subdola Phoebe (Barbara Bates) che si stringe al petto quello stesso trofeo davanti a un armadio a specchio, non potrebbe essere più emblematica e beffarda: una mise en abîme addirittura letterale, con un'immagine riflessa all'infinito volta a ricordarci che, dopotutto, ci sarà sempre un'altra Eva pronta a combattere con la precedente e, magari, a prenderne il posto.
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