"La grande qualità, la massima espressione del servizio pubblico italiano": Carlo Fuortes, amministratore delegato Rai, non ha dubbi e così definisce il debutto di Marco Bellocchio nella serialità. Venti anni dopo Buongiorno, notte, il regista de I pugni in tasca, torna a occuparsi del caso Moro, e lo fa con una miniserie, Esterno notte, che dopo il passaggio a Cannes e una breve uscita in sala in due parti lo scorso maggio, arriva su Rai 1, il 14, 15 e 17 novembre. "Un progetto filmico che sarà visto da milioni di persone", al contrario di quanto "purtroppo, specialmente in questo periodo, è molto meno facile fare nei cinema", continua Fuortes presentandolo alla stampa.
Ma soprattutto un evento "che rientra nella grande tradizione nobile della Rai del passato, la stessa che ha chiesto a grandi cineasti di fare progetti speciali, innovativi e non strettamente cinematografici". Il riferimento è a Fellini, Olmi, Bertolucci, e il tentativo è quello di rinnovare quella tradizione. "Faremo altre cose di questo genere, interdisciplinari", annuncia sottolineando l'importanza di "impegnare cineasti in Rai su progetti originali". L'invito è per Bellocchio "a impegnarsi su un altro progetto non cinematografico, originale e nuovo che usi la televisione come mezzo comunicazione". Lui ci sta pensando, ma è troppo presto per dire di più: "Ho un'idea ma non la dico!", chiosa.
Un racconto corale
In Esterno notte, ampiamente celebrato a Cannes da pubblico e critica, Bellocchio rilegge i cinquantacinque tragici giorni del rapimento Moro da un punto di vista diverso da quello del suo film precedente, Buongiorno, notte. Il regista sposta lo sguardo dall'interno della prigione (dove si svolgeva il film) al suo esterno, questa volta i protagonisti sono tutti quei personaggi (uomini e donne di famiglia, maghi, prelati, politici, forze dell'ordine, servizi segreti) che fuori da lì ebbero un ruolo nella vicenda. Gli danno vita Fabrizio Gifuni nei panni di Aldo Moro, Margherita Buy, in quelli della moglie Eleonora Chiavarelli, Toni Servillo (Paolo VI), Fausto Russo Alesi (Francesco Cossiga), Gabriel Montesi e Daniela Marra che interpretano rispettivamente Valerio Morucci e Adriana Faranda, i brigatisti coinvolti nel sequestro.
Per Fabrizio Gifuni interpretare lo statista rapito e ucciso dalle Brigate Rosse è stata una questione di "scelta" e insieme di "fatalità", visto che con la con la figura di Aldo Moro ha avuto a che fare anche a teatro (Con il vostro irridente silenzio di cui ha curato anche la regia): "Per molti anni attraverso il mio lavoro ho incontrato questa figura così importante per la storia del nostro paese. L'ho fatto per passione civile e anche perché penso che raccontare questa storia non sia solo raccontare una storia cruciale della seconda metà del Novecento italiano, ma sia soprattutto cercare di capire cosa abbia a che fare con noi oggi. Non è solo memoria di un paese lontano, di uomini che non assomigliano quasi per nulla al nostro presente, ma è ricucire i fili di una memoria fatta a pezzi negli ultimi decenni con violenza e spudoratezza, suggerendo alle nuove generazioni che la memoria è divisiva e inutile. È come se vivessimo in un eterno presente, meglio cancellare le tracce; molte figure sono fantasmi della nostra storia, corpi a cui non è stata data degna sepoltura", dice. Il fatto che Marco Bellocchio qui assuma tanti punti di vista secondo Gifuni non fa altro che "aiutare il pubblico a entrare in questa storia empaticamente attraverso gli stati d'animo dei vari personaggi, e di abbandonarsi all'emozione pura, senza lo schermo dell'ideologia". Stessa emozione per Margherita Buy, chiamata da Bellocchio per interpretare la moglie di Moro, "una donna poco raccontata e molto poco contenta della dimensione in cui era finita, quella di una vita che forse non avrebbe voluto al cento per cento".
Per Toni Servillo, che indossa le vesti papali di Paolo VI, è stata una straordinaria "avventura conoscitiva". Paolo VI gli ricorda "altre figure importanti della drammaturgia teatrale, che deve sopportare in maniera aspra e violenta il conflitto tra il senso della misericordia e quello della responsabilità. È stato l'aspetto più affascinante da raccontare".
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Un dramma dai tratti shakespeariani
"Una vicenda dai tratti quasi shakespeariani, un viaggio psicoanalitico" invece per Stefano Bises che ha scritto la serie insieme a Bellocchio, Davide Serino e Ludovica Rampoldi. "Il caso Moro - spiega la sceneggiatrice - è come un grande contenitore di temi che in cinquantacinque anni di cinematografia Marco aveva sempre lambito: potere, religione, famiglia, mistero, follia". Anche se tornarci su per il regista non voleva dire "fare i conti con qualcosa, né dividere come si fa in un tribunale. Non c'è nulla di tribunalizio, l'unica polemica è arrivata dal fatto che il figlio di Andreotti non abbia voluto vedere il film; per il resto posso dire che non troverete alcuna volontà di giudicare, perché il corpo e il senso di questa serie è altrove, forse nella coralità delle reazioni umane. Si torna sul caso Moro non per scoprire dei nuovi segreti, ma perché questa tragedia ci fa ancora palpitare e ci coinvolge, ma senza l'intenzione di condannare questo o quello".
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Romanzo popolare? Non proprio. L'idea era quella "che Moro si presentasse come politico, presidente e leader nella prima puntata, in cui intravediamo anche dei momenti molto importanti di vita domestica e familiare, che poi scomparisse con la strage e ricomparisse nell'ultima puntata", per Bellocchio nulla dell'atmosfera plumbea di quel periodo è stato sacrificato, anzi la affida proprio a un passaggio particolare dell'interpretazione di Gifuni in cui "si concentra tutto ciò che è scritto nel suo epistolario. In quei dieci minuti, che televisivamente parlando è una lunghezza importante, speriamo che spettatore, regga, si rappresentano il personaggio e la sua disperazione, la rabbia, il suo dolore, i suo essere cristiano. Quel momento riassume tutto l'epistolario che conosceremo tutti dopo".