...che cosa c'è di folle nel non voler morire?
La confessione rabbiosa di Aldo Moro a un giovane sacerdote, nello spazio angusto della sua cella, poco prima della fatidica esecuzione, segna probabilmente la climax dell'episodio conclusivo di Esterno notte. L'anelito di libertà del Presidente della Democrazia Cristiana, aggrappato con tutte le forze al proprio desiderio di vivere, è innanzitutto un'ostinata rivendicazione di sanità mentale contro coloro che, al di fuori di quella prigione e dalle pagine dei giornali, ne avevano messo in dubbio la lucidità e l'equilibrio. Il ritratto di Moro disegnato da Fabrizio Gifuni in questi tesissimi, indimenticabili minuti è complementare a quello tracciato nel primo capitolo: un uomo pacato, serafico, pressoché immune alle ansie di dover guidare il Governo di un paese e alle frenetiche meschinità dei suoi compagni di partito.
Incrollabile baricentro di un intero sistema politico, dopo cinquantacinque giorni Moro è travolto dall'amarezza, dal risentimento, dalla disillusione che riecheggiano da ogni sillaba rivolta al prete, e che prenderanno la forma di allucinazioni nell'inconscio inquieto di chi, nel frattempo, ha ereditato le redini dell'Italia di fine decennio. Esterno notte racconta soprattutto questo: come il sequestro Moro sia stato l'evento alle origini del collasso di una nazione, raffigurata mediante la sineddoche di una Roma dalle tinte apocalittiche, con un cielo livido solcato dagli elicotteri, nugoli di madri spaventate che corrono a riprendere i figli a scuola e un'inesorabile atmosfera di fatalità e di minaccia. La Storia, dunque, ma ancor più la sua trasfigurazione: al di là degli stilemi della cosiddetta docu-fiction, Esterno notte adotta un linguaggio, una forza espressiva e un'ampiezza di sguardo che gli consentono di stagliarsi fra i picchi più alti della produzione cinematografica e/o televisiva nostrana.
Gli anni di piombo raccontati da Marco Bellocchio
E il merito principale, per quanto possa essere pleonastico ribadirlo, è ovviamente suo: di Marco Bellocchio, classe 1939, regista e sceneggiatore che dall'epoca de I pugni in tasca (era il 1965) si è adoperato ad esplorare le contraddizioni, le nevrosi e le miserie morali dell'Italia del Novecento e degli anni Duemila: uno Stato dilaniato fra pulsioni ribellistiche e tendenze reazionarie, fra devozione e iconoclastia, fra perdita dell'innocenza e volontà di redenzione. E il caso Moro, intessuto a doppio filo nel nostro immaginario collettivo, è uno di quei momenti spartiacque che non si limitano a sancire un punto di non ritorno (il fallimento del compromesso storico, l'implosione del terrorismo rosso, l'inizio dell'ultimo atto del potere democristiano), ma sono in grado di mettere a nudo l'anima di una nazione attraverso un approccio polifonico. Un po' come accadeva con la vicenda di Eluana Englaro, nell'Italia berlusconiana del 2009, in un film magnifico e mai abbastanza apprezzato quale Bella addormentata.
Nell'arco delle quasi sei ore di Esterno notte, distribuito al cinema in due segmenti grazie a Lucky Red (la Parte 2 è approdata nelle sale il 9 giugno) e il prossimo autunno su RaiUno come una miniserie in sei puntate, Marco Bellocchio declina così la cronaca storica in chiave di dramma psicologico, di thriller politico e perfino di ucronia surreale (quell'incipit spiazzante, nella sua smaccata 'falsità', che si riallaccia al funesto epilogo dell'ultimo episodio); e lo fa selezionando di volta in volta un punto di vista differente. Si parte, com'era naturale, dall'Aldo Moro di un mimetico Fabrizio Gifuni, con la sua mite fermezza che lo caratterizza tanto nel ruolo di "padre nobile" della Democrazia Cristiana, quanto in quello di padre di famiglia affettuosamente apprensivo. Si prosegue, subito dopo i fatti del 16 marzo 1978, con un personaggio che non potrebbe essere più agli antipodi: il Francesco Cossiga di Fausto Russo Alesi, che dal Viminale presiede alle indagini con un'angoscia via via più febbrile, mentre si affaccia timorosamente sul baratro del rimorso e della paranoia.
Esterno notte: Marco Bellocchio e i tre volti del potere
Il caso Moro fra ossessioni, incubi e un finale impossibile
Se Francesco Cossiga e il Giulio Andreotti di Fabrizio Contri, sordida eminenza grigia sul "trono di sangue" di Palazzo Chigi, incarnano con sofferta ambiguità il rigore delle istituzioni, Toni Servillo presta il volto alla maschera dolente di Paolo VI, che da un altro palazzo del potere - quello plurisecolare di San Pietro - si abbandona al delirio di un'imitatio Christi in cui Aldo Moro è l'agnello sacrificale che soccombe sotto il peso della croce. A inaugurare Esterno notte - Parte 2, invece, è la prospettiva opposta e avversaria dei brigatisti, con l'Adriana Faranda di Daniela Marra a dare corpo e voce alla ferocia antiborghese delle BR, ma pure ai dubbi e ai sensi di colpa della soldatessa che, nel bel mezzo di una missione cruciale, fa sempre più fatica a riconoscersi nel proprio esercito e a condividerne motivazioni e strategie. Si tratta di un episodio che dialoga apertamente con un altro capolavoro bellocchiano, Buongiorno, notte, accentuandone tanto la dimensione politica, quanto la componente visionaria e grottesca (l'incubo dei cadaveri che scorrono tra i flutti del Tevere).
Dalla terrorista pronta a immolarsi per la rivoluzione proletaria, ma turbata dall'orrore dell'omicidio e dall'ipocrisia dei propri seguaci, si passa a un altro mirabile ritratto femminile: l'Eleonora Moro di Margherita Buy, animata dalla frustrazione di dover spartire il marito con la ragion di Stato, ma capace di ammantarsi di una sobrietà severa e granitica nel momento in cui tutti gli altri vorrebbero vederla indossare i panni di moglie fragile e in preda alle lacrime. La risolutezza della signora Moro, che non rinuncia alla razionalità laddove al contrario il Ministro Cossiga sembra disposto a inseguire fantasmi e superstizioni, anticipa l'atto finale di questa tragedia italiana: l'unico episodio dal taglio corale, in cui l'ucronia di una sopravvivenza insperata, accompagnata da un durissimo j'accuse, si infrange sulle immagini della Renault rossa parcheggiata in via Caetani e sui filmati dell'omelia funebre pronunciata dal Pontefice in assenza di una salma. Storia e romanzo, realtà e invenzione confluiscono così nel magnum opus di un cineasta straordinario che, a ottantadue anni, continua a dar prova di un talento smisurato e di un'audacia davvero senza età.
Esterno notte, la recensione: tutta la Passione di Aldo Moro