A guardare la carriera di Benedict Cumberbatch, uno degli attori più famosi della sua generazione, si può notare come essa trovi la sua massima espressione in linguaggi e media diversi rispetto al cinema, nonostante due candidature all'Oscar come migliore attore e nonostante esso sia ciò per cui è più conosciuto al grande pubblico. Infatti, tolta la sua interpretazione di Sherlock Holmes in Sherlock, l'interprete londinese classe 1976 è diventato famoso soprattutto per essere il volto del Doctor Strange del Marvel Cinematic Universe. Dall'altra parte, pensiamo anche all'Alan Turing in The Imitation Game o al Phil Burbank nel bellissimo Il potere del cane.
Con "media e linguaggi diversi" ci riferiamo al teatro e, soprattutto, alla serialità. Per questo, vi invitiamo ad una riflessione che comprende più titoli. Da quello già citato poco sopra, passando per Patrick Melrose, fino all'ultimo, Eric (qui la nostra recensione) di Lucy Forbes, miniserie originale Netflix.
Un successo "serial", quindi, i cui motivi possono essere diversi. Molti di questi sono legati sia alle caratteristiche del formato, che combaciano con il modo con cui sono scritti i personaggi che Cumberbatch è chiamato a portare in scena, e sia alle qualità specifiche dell'attore britannico, il quale vanta dei tratti incredibilmente peculiari (fatalmente connessi all'uso del suo aspetto) e, allo stesso tempo, un arsenale interpretativo che pochi altri possono vantare in questo momento.
Benedict Cumberbatch e il formato seriale
Benedict Cumberbatch, da buon interprete di scuola inglese, è nato sul palcoscenico e dunque straordinariamente abile nei fondamentali legati all'espressività e alla mimica, qualità alle quali ha aggiunto quella dell'uso della voce, come testimonia la sua prova nei panni del drago Smaug nella trilogia de Lo Hobbit, ma anche il suo lavoro proprio in Eric, dove interpreta un uomo che per lavoro doppia i pupazzi che crea. Oltre questo, Cumberbatch a teatro ha avuto modo di acquisire quelle caratteristiche proprie di un interpreta abituato a lavorare con l'errore e ad essere costantemente in scena.
Queste ultime due abilità si sposano con il suo modo di creare il personaggio all'interno del format seriale. Il suo sviluppo presuppone una messa in scena simile al teatro per il minutaggio incredibilmente ampio e perché condita dalla necessità di creare un tipo di increspature nell'interpretazione ottenibili dall'imperfezione o dall'improvvisazione. Creando di conseguenza un coinvolgimento maggiore nel pubblico, un canale empatico. Metodo che è stato straordinariamente utile a Cumberbatch per smussare la perfezione logico-razionale del suo Holmes in Sherlock, nella quale si è spesso lanciato in assoli interpretativi al di fuori dello schema teorico in cui il suo personaggio pareva sguazzare. E non parliamo solamente della serie di Gatiss e Moffat quando diciamo che l'attore si è trovato spesso a "scrivere da solo" il suo personaggio.
Una necessità di rottura con cui però in quel caso specifico hanno giocato anche gli autori, che si sono divertiti a creare della gabbie matematiche per il loro protagonista in modo tale da permettergli di distruggerle, anche con delle chiavi teatrali, sia nella gestione di spazi e tempi dove recitare e sia nella possibilità di lavorare in costume. Quest'ultimo fattore, generalmente sottovalutato, è invece di estrema importanza perché consente all'attore di mettersi alla prova con l'artificio, smascherandolo o nascondendocisi dietro. Non a caso Cumberbatch lo ha spesso portato, se ci fate caso, anche sul grande schermo. Un po' di teatro anche al cinema.
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I personaggi scomodi
Sherlock Holmes, Patrick Melrose e Vincent sono delle maschere che Benedict Cumberbatch ha deciso di portare in scena partendo dalle loro spigolosità. Tutti e tre sono, infatti, dei personaggi con i quali è difficilissimo empatizzare perché non fanno nulla per nascondere le loro bassezze, i loro vizi e i loro difetti, anche quando vanno a scapito di chi sta loro intorno. Personaggi che difficilmente il pubblico riesce a digerire, se non dopo una conoscenza piuttosto lunga (altro motivo per il quale il linguaggio seriale è il più appropriato).
Dunque, i personaggi televisivi di Cumberbatch sono figure spezzate, che si sono aggrappate alla vita con le unghie e con i denti, come testimonia il fatto che per per smaltire la colpa di esistere sono arrivati addirittura al punto di aggredirsi. Ce lo dice soprattutto Patrick, che nella sua terribile infanzia e nel suo animo anarchico, costellato da dipendenze di ogni sorta e bisogno di squilibrio, collegandosi a Vincent.
Il personaggio di Cumberbatch in Eric è infatti un sunto delle prove passate, oltre ad un'ennesima dimostrazione della sua incredibile abilità sul piccolo schermo, dal momento che unisce un'anima più pop come quella di Sherlock ad una molto più dura e respingente come quella del protagonista di Patrick Melrose. Di più, la sua funzione all'interno della sceneggiatura e il bagaglio emotivo che porta sulle spalle testimonia l'incredibile capacità dell'attore di gestire personaggi con dei pesi enormi e complessi arrivando sempre a compimento. Il suo è un metodo che funziona sulle lunghe distanze e che ha come meta la rivelazione dell'umanità. Un fattore che non si raggiunge mai facilmente.