Era una notte buia e noiosa...
Il piccolo Tim assiste impotente alle gesta dell'uomo nero nell'oscurità della sua stanza. Ne rimane sconvolto e cresce terrorizzato dal buio e da qualunque cosa assomigli a un armadio, di qualunque tipo (frigoriferi, forni, stipetti, armadi a muro). Quando ha finalmente imparato a convivere con la sua paura, il caso vuole che la morte della madre lo costringa a ritornare nella casa d'infanzia e a trascorrervi bravamente una notte.
Quello che poteva essere un piacevole divertissement per Sam Raimi (produttore) e i suoi numerosi fans, un piccolo film per appassionati del genere, a volerlo gonfiare con una sceneggiatura scellerata (incredibile che ci si siano messi addirittura in tre a scriverla) diventa un polpettone indigesto e soporifero. Il film è pieno zeppo di situazioni più o meno sconclusionate, legate tra di loro da un filo debolissimo e appena giustapposte: l'approccio psicologico, quello più genuinamente sovrannaturale, la patetica comparsa di un tentativo di critica sociale, il rapporto irrisolto del giovane protagonista con la madre, la malattia mentale infantile.
E i fantasmi. Ficcati dentro, inseriti a forza, vuoi perché sono una figura ricorrente nei film di Raimi, vuoi perché si vuole fare un film un po' all'orientale (lo stesso Raimi non nasconde di subire un fascino nei confronti della "nuova" ondata horror dagli occhi a mandorla), sicuramente non per comunicare emozioni, certamente non per dare impulso a una storia che non va avanti in quanto, praticamente, non è mai cominciata.
Stephen T. Kay maneggia la macchina da presa come un pazzo omicida brandirebbe un'accetta. Mena botte a destra e a manca esaurendo prestissimo, nella poco più che decente sequenza iniziale, tutto il suo repertorio fatto di clichè per niente rielaborati, rifugiandosi poi in un appena dignitoso anonimato. Ma alle fine si ricorda di chi gli sta producendo il film (o sarà stato mica Raimi a tentare di raccattarlo per la collottola, chissà) e si lancia in una serie di riprese accelerate in soggettiva che richiamano, pensate un po', Evil Dead (La casa).
Ma non crediate, non sperate, di trovarvi davanti all'umile e scanzonato omaggio, all'ironico gioco citazionista: Kay sembra crederci veramente all'inquietudine provocata da un'altalena che dondola, dalle porte che cigolano, dai pavimenti che scricchiolano. E neanche il gioioso gusto dell'esagerazione sarà di conforto al triste spettatore; il film si mantiene misuratissimo nel mostrare la violenza, il sangue, la morte (sesso neanche a parlarne, ma allora perché - mi domando - creare i presupposti girando una scena in un motel con tanto di biancheria a schermare il paralume?) e tutto quel che non bisogna mostrare per non incorrere nelle temibili cesoie censorie.
Aggiungete un cast bolso e immoto, dei comprimari che sembrano far parte della scenografia (peraltro apprezzabile in alcuni particolari goticheggianti, ben fotografati in chiave espressionista), dei dialoghi con un ritmo e un brio degni di un mantra tibetano (memorabile il pranzo dai genitori di lei), e avrete questo Boogeyman, un film, un'operazione, di cui realmente chi scrive non riesce a cogliere il senso.