La scena d'apertura di Dunkirk costituisce uno degli incipit più elettrizzanti visti al cinema in tempi recenti. Un manipolo di soldati britannici, fra i quali il giovanissimo Tommy (l'esordiente Fionn Whitehead), stanno cercando un riparo fra le vie di Dunkirk, una cittadina francese così silenziosa e desolata da sembrare un autentico luogo fantasma. All'improvviso un nugolo di proiettili si abbatte sui soldati in fuga, mentre Tommy, che scavalca un cancello, getta via il suo fucile e riprende a correre, rimane l'unico superstite.
Già da questi minuti iniziali, con il primo, formidabile assalto ai nervi del pubblico, Christopher Nolan stabilisce la traiettoria intrapresa da Dunkirk: un dramma bellico che assume la forma di un survival movie serratissimo e quasi senza respiro, in cui perfino la colonna sonora di Hans Zimmer abbandona le classiche strutture melodiche per abbracciare l'incalzante tacchettio di un conto alla rovescia che non sembra lasciare scampo. E Tommy, che a quel ticchettio tenterà di sottrarsi per quasi tutto il film, diventa il nostro inesorabile elemento di focalizzazione: gli occhi e le orecchie attraverso i quali lo spettatore sarà costretto a condividere la sua angosciante esperienza sulla spiaggia di Dunkirk e fra le acque del Canale della Manica.
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I "giochi di prestigio" di un regista al di fuori dei generi
Per Christopher Nolan, Dunkirk segna il primo cimento con un genere strettamente codificato come quello di guerra, ma anche (e forse soprattutto) il primo film che obbliga il regista londinese a rimanere entro i limiti di un rigoroso realismo; e non soltanto per la sua essenza di opera storica, il cui soggetto - la forsennata ritirata delle truppe alleate sulle coste settentrionali della Francia nella primavera del 1940 - è ancora ben vivo nell'immaginario britannico. In poco meno di vent'anni di carriera, e nei nove lungometraggi alle sue spalle, Nolan ha saputo riprendere in mano canoni e tradizioni di diversi filoni cinematografici, dimostrandosi però un cineasta profondamente moderno, in grado di rileggere di volta in volta tali canoni per poi declinarli secondo formule nuove e spesso sorprendenti: le sue audaci 'deformazioni' del thriller psicologico, del noir e del mystery in Following, Memento e The Prestige (molto meno in Insomnia, non a caso l'unico suo film di cui Nolan non sia anche autore della sceneggiatura); la sua cupa interpretazione del cinecomic, contaminato con l'action movie metropolitano, nella trilogia del cavaliere oscuro; e poi la fantascienza in chiave noir e spy story di Inception o nell'epica visionaria di Interstellar.
Se nell'opera di Christopher Nolan, in sostanza, è evidente l'intima conoscenza dei generi cinematografici, dei loro modelli di riferimento e dei rispettivi archetipi, i suoi film in compenso non si adagiano mai su un classicismo propriamente detto: che sia alle prese con un noir a basso budget o con un imponente blockbuster, Nolan non ha mai rinunciato a creare le proprie regole, a rifiutare le soluzioni più facili, o semplicemente più convenzionali, per seguire strade più tortuose o percorsi inediti. Una 'complessità', drammaturgica prima ancora che tematica, da anni presa di mira dai detrattori del regista inglese, il quale tuttavia con Dunkirk ha registrato un plebiscito praticamente assoluto, rafforzato da uno strepitoso risultato al box office (finora quasi cinquanta milioni di spettatori). E anche Dunkirk si smarca da molti paradigmi del genere bellico, imponendosi come uno dei più originali war movie realizzati nel corso del nuovo millennio: un'originalità rintracciabile nei seguenti aspetti peculiari, che hanno contribuito a rendere Dunkirk uno dei migliori film dell'anno...
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La guerra in tre tempi
La fascinazione di Christopher Nolan nei confronti dell'elemento temporale è apparsa palese fin dai suoi primi successi: che si trattasse di scomporre e rovesciare la tradizionale linearità cronologica, come in Memento e The Prestige, o di eleggere il tempo (il tempo perduto, il tempo desiderato) a chiave della narrazione stessa, come in Inception e Interstellar. E in Dunkirk permane questa fascinazione ineludibile: nella sua natura di racconto calato in un tempo sospeso, paralizzato, gravido di minaccia (la "noia vigile" dei soldati sulla spiaggia, in attesa di prendere il largo oppure di essere falciati dal fuoco nemico), ma non solo. Nolan, infatti, continua a 'giocare' con le strutture temporali, che in questo caso risultano frammentate secondo un vero e proprio meccanismo diacronico: tre piani narrativi sviluppati in maniera parallela, ma secondo tre durate ben diverse.
Alla settimana del soldato Tommy, per il quale il tempo procede fra la logorante dilatazione dell'attesa e le repentine accelerazioni dei momenti di suspense, si alternano così la lunga giornata (e la nottata) del viaggio in mare dal porto di Weymouth di Mr. Dawson (Mark Rylance) insieme al figlio Peter (Tom Glynn-Carney) e al suo amico George (Barry Keoghan), con l'obiettivo di trarre in salvo alcuni soldati britannici, e l'ora di combattimento nei cieli vissuta da Farrier (Tom Hardy), un pilota della Royal Air Force impegnato a proteggere l'esercito inglese contrastando come può l'aviazione tedesca. Tre storie separate, tre differenti prospettive sulla medesima vicenda che, pur con ritmi distinti, convergeranno nell'epilogo in un unico, fulmineo ma decisivo istante.
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Il nemico invisibile
In apertura, abbiamo citato la scena iniziale di Dunkirk come un perfetto esempio della magistrale capacità del film di generare una costante atmosfera di tensione: una tensione che, a partire da quella prima scarica di proiettili assassini, non abbandonerà più Tommy. Se Dunkirk, più ancora che un dramma bellico, è principalmente un survival movie, la sua straordinaria forza emotiva risiede proprio nell'angoscia latente ma palpabile che affligge il protagonista, così come i suoi commilitoni: l'angoscia per un pericolo che non ha un nome specifico (se non un generico "nemico") né una configurazione precisa, e che può manifestarsi in ogni attimo e sotto qualunque forma. È un dato particolarmente significativo, soprattutto se considerato nell'ottica di un film di guerra: Nolan non ci mostra mai direttamente questo "nemico" e si astiene dal conferirgli un volto umano.
Perché il nemico, in Dunkirk, non sono semplici soldati tedeschi, soldati i cui tratti fisionomici apparirebbero pressoché identici a quelli delle migliaia di ragazzi britannici e francesi bloccati lungo la costa. Il nemico, piuttosto, è un'entità indefinita ma terribilmente concreta: i proiettili sparati da qualche parte, al di fuori dei limiti dell'inquadratura; il sibilo sinistro dell'aviazione tedesca e le bombe sganciate dal cielo; i missili di un sottomarino invisibile o misteriose scariche di mitraglia. Il nemico, in Dunkirk, è la paura stessa, la coscienza paralizzante della morte sempre in agguato, come ben sottolinea il critico David Ehrlich nella recensione di IndieWire: "La sua sconvolgente ricostruzione della notte più buia della Gran Bretagna - e della miracolosa alba successiva - dissolve le truppe di Hitler in una minaccia principalmente esistenziale. Il testo d'apertura si riferisce a loro solo come 'il nemico'. Esse sono vaghe e violente come le proiezioni oniriche in Inception, più che una forza concreta, un'astrazione mortale che vive sotto la nostra pelle, nutre le nostre paure, ed erode il nostro comune obiettivo". La Storia, dunque, finisce per diventare il riflesso di un orrore ancestrale, della strenua lotta di un essere umano animato da un irriducibile istinto di sopravvivenza: un istinto che lo porta a resistere, e a sperare, finanche nella più tragica delle condizioni.
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La dignità nella sconfitta e il valore dell'essere umano
La precipitosa fuga dell'esercito britannico a Dunkirk, lo stato di relativa impotenza di fronte all'avanzata tedesca e alle mortali incursioni della Luftwaffe, l'attesa snervante di poter salpare per oltrepassare la Manica e tornare in patria: già la scelta in se stessa di questo specifico episodio della Seconda Guerra Mondiale, probabilmente la fase più nera per gli Alleati sul fronte europeo, è emblematica dell'approccio di Christopher Nolan alla materia storica. Fin dalle sue origini, del resto, il genere bellico è stato quello maggiormente incline a piegarsi in direzione di una qualche tipologia di retorica nazionalista, pur con le doverose, superbe eccezioni: capolavori come All'Ovest niente di nuovo di Lewis Milestone, La grande illusione di Jean Renoir e Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick, ad esempio, hanno raccontato la guerra esprimendo un potente messaggio antimilitarista e rispondendo alla "ragion di Stato" dei vari conflitti mondiali con un irrinunciabile umanesimo. Un umanesimo analogo, per molti versi, a quello di cui è pervaso Dunkirk: la cronaca di un disastro, prima ancora che di un miracolo; l'epopea di un soldato che nelle primissime sequenze abbandona il suo fucile e che per i restanti cento minuti del film impiegherà tutte le proprie forze allo scopo di restare in vita e rimettere piede sul suolo britannico.
Tommy non è un eroe, né potrebbe esserlo: non lì, non in quel frangente. Lui, così come migliaia di altri ragazzi poco più che adolescenti accampati lungo la spiaggia francese, non è altro che carne da macello: l'unica azione sensata è la fuga, è preservare la propria vita anziché sprecarla in un vano sacrificio. Eppure a pensarci bene anche Tommy, così come l'altruista Mr. Dawson e il coraggioso pilota Farrier, ha l'occasione di dare prova di eroismo, ma paradossalmente non combattendo contro i tedeschi: Tommy, il soldatino spaventato e inerme, compirà la sua sola azione eroica opponendosi ai suoi stessi compagni d'arme, mentre si trovano nascosti a bordo di un peschereccio preso di mira dal fuoco avversario. E lo farà perché, unico fra tutti e a dispetto di una situazione di estrema emergenza, deciderà di anteporre il principio di umanità a quello di nazione; perché sarà l'unico a dichiarare che il diritto alla sopravvivenza di Gibson (Aneurin Barnard), un soldato francese spacciatosi per inglese, non può essere negato in base alla sua appartenenza a un paese diverso dalla Gran Bretagna.
In questa tesissima sequenza, in cui Tommy trova la forza di opporsi al suo connazionale Alex (Harry Styles) e a un gruppo di militari scozzesi, risiede uno dei momenti più emozionanti di Dunkirk: la riaffermazione di quello spirito umanistico da sempre al cuore del cinema di Nolan, e al contempo la reazione più netta contro quel meschino egoismo che, di volta in volta e di epoca in epoca, può assumere le sembianze della xenofobia o del razzismo (gli atroci "A casa loro" e "Prima gli italiani" dei nostri lidi). Prima che un inglese, un francese o un tedesco, Tommy riconosce accanto a sé un essere umano, e di conseguenza riconosce il valore della sua vita; lo riconosce ed è determinato a difenderlo, pure a costo di subire egli stesso l'ostilità e il disprezzo dei propri compagni. In questa maestosa ricostruzione di una sconfitta a tutto campo, nella tragedia di una ritirata che rischia di tramutarsi in un gigantesco massacro, può bastare anche questo: una scintilla di umanità, prima ancora che di eroismo, in grado di rischiarare, seppure per un attimo, perfino il più oscuro degli abissi.