Due passi di corsa verso l'uscita
Dalla verve immaginifica dell'onnipresente e omnicomprensivo Maurizio Costanzo, nasce, sorprendentemente con la benevolente comprensione di mamma Rai, la consacrazione cinematografica del ballerino marchettaro Kledi Kadiu (desta stupore come il film lo prenda in giro senza che lui se ne accorga). Bisognerebbe però ricordare a chi intraprende una qualsivoglia carriera televisiva, seppur costellata di successi e soddisfazioni, che non occorre a tutti i costi cercare una consacrazione sul grande schermo, e che anzi questa potrebbe nuocere all'immagine del malcapitato ben più rispetto al ritorno d'immagine che il suddetto pensava di avere.
Il film orchestrato da Andrea Barzini, onesto mestierante del cinema e regista televisivo, è uno di quei lungometraggi appassionanti perché talmente prevedibili, che ci si ritrova tutto il tempo ad esultare della propria intuizione come esperti cinefili revisori di trame. A bocce ferme, tuttavia, nonostante una difficoltà nel dover smontare il proprio ego di novello Bazin della critica nostrana, si deve riconoscere che è la costruzione dello script e la banalità della messa in scena, che fanno tutto da sole nel tentare in ogni modo di rendere scontato il proseguio della pellicola.
Troviamo così gli stereotipi (tutti, ma proprio tutti) di un certo tipo di cinema americano alla Footlose, come anche tutta una serie di rimandi alla tv-verità, gran scoperta dell'istrionico Costanzo nei suoi programmi di varietà. Stereotipi che reggono bene in televisione, assetata di disgrazie altrui e grandi drammi dall'immancabile lieto fine, per stordire la possibilità di giudizio di un vissuto pseudo-normale, ma che al cinema, se non si corrisponde a quella fascia d'età (che si spera 0-16) che pone il proprio idolo televisivo a feticcio del suo personalissimo modo di porsi di fronte alla realtà, può, nel migliore dei casi, provocare un'ottima dormita dopo una giornata di duro lavoro. Ma per questo, si obietterà, c'è il proprio letto, più comodo, e soprattutto gratis. Vero. Ma il film, un film che, cinematograficamente, non ha alcun motivo di esistere, non ha nulla più da offrire.
Intervallato da numerose e per lo più estemporanee coreografie di Kledi (alcune delle quali, ci dicono, molto belle), il tentativo del regista è quello di porre l'accento sulla drammaticità della situazione di un ballerino albanese in Italia, sfruttato e senza permesso di soggiorno. Ma Barzini non fa nulla per ovviare alle palesi carenze attoriali del protagonista (che si sussurra per le scene dialogate abbia usato un comodino come controfigura), ma le incancrenisce, sottolineando, con ridondanti effetti sonori e movimenti di macchina, momenti del film che di emozionante recano solo la consapevolezza che si è un minuto, un secondo, più vicini ai titoli di coda. L'effetto che ripetutamente cerca di creare, anche attraverso l'uso incomprensibile di immagini in trasversale, non solo non è quello voluto, ma ha la capacità di sfiorare il ridicolo in più momenti dunque, rendendo ancora più amara la visione al povero malcapitato. Ovviamente, parallela a quella del ballerino emigrante, c'è la storia della classica figlia di papà tormentata, lacerata, dall'incomprensione familiare nei confronti della sua passione e trascurata dal ragazzo in carriera. I due s'incontreranno, e nulla ci si sente di dire per rovinare la sorpresa di un finale insolito (ma provate a immaginarlo, è proprio quello che avete pensato).
Prodotto della (sotto)cultura televisiva italiana, Passo a due si rivela, costanzianamente, un'esaltazione della televisione come consacrazione di un perché della vita, come mito e aspirazione ultima nella scala sociale. Ricordando al sistema paese, di come occuparsi di una piccola-media impresa sia in realtà roba da insensibili falliti.