Dopo il distacco, la vita
Henry Barthes fa l'insegnante. Il supplente, per la precisione. Il suo compito non è quello di stabilire un legame permanente con i suoi studenti, quando piuttosto di trasmetter loro qualcosa sfiorando appena le loro vite, mantenendosene a quella distanza di sicurezza che (così pensa lui) gli consentirà di non farsi schiacciare dal suo lavoro. Perché, poco ma sicuro, nel campo dell'insegnamento c'è di che essere schiacciati, se non si hanno sangue freddo e nervi saldi: specie in scuole come quella in cui Henry è appena andato a insegnare, un degradato istituto di periferia in cui gli studenti minacciano, i professori abbozzano, i genitori appaiono solo per mostrare tutta la loro stupidità e inadeguatezza, e la trasmissione del sapere sembra un obiettivo lontanissimo e quasi utopico. Il distacco mostrato dal supplente, all'inizio, sembra funzionare: nella sua quotidiana battaglia contro adolescenti e adulti incapaci e privi di motivazioni, Henry riesce a conquistarsi quel rispetto che per molti suoi colleghi è ormai obiettivo irraggiungibile. Ma il mondo, da lui tenuto appena fuori dalla porta, bussa con impazienza; e infine finisce per invadere lo spazio vitale dell'uomo, così gelosamente custodito, nelle persone di una prostituta adolescente e di un'alunna schiacciata dai complessi di inferiorità e dai conflitti col padre, ma dotata di una forte sensibilità artistica.
Tony Kaye, regista britannico trapiantato negli Stati Uniti, è tra le figure più interessanti dell'attuale scena indipendente americana; dopo una manciata di regie di videoclip, opere come American History X e il documentario Lake of Fire lo hanno prepotentemente imposto, negli ultimi due decenni, all'attenzione del pubblico e della critica internazionali. Questo Detachment - Il distacco (ma il suo precedente Black Water Transit è ancora inedito in Italia) mostra un po' entrambe le anime dell'approccio al cinema di Kaye: quella documentaristica, nell'uso delle false interviste, della camera a spalla e di sequenze scarne ed essenziali, tipiche del documentario, e quella da artista figurativo (è anche pittore e illustratore) in un montaggio nervoso e destabilizzante, nell'alternanza in chiave espressiva di sequenze filmate e disegni, in frammenti psichedelici di flashback e sequenze oniriche dalla forte valenza simbolica. L'intento di questa sua nuova opera è esplicitamente sociologico: uno sguardo tutt'altro che rassicurante su una realtà complessa come la scuola pubblica americana, mescolato a riflessioni più generali sulla solitudine metropolitana, sulla difficoltà, nella "società liquida" in cui ogni contatto è sfuggevole e labile, di stabilire legami permanenti. L'atteggiamento del protagonista (un notevole Adrien Brody) tanto nelle sue lezioni quanto nelle peregrinazioni notturne tra la sua abitazione e l'ospedale in cui è ricoverato il nonno, è quello di chi scivola sulla superficie delle cose, convinto che soffermarvisi significherebbe, inevitabilmente, affondare. E' proprio l'ottica del protagonista quella che guida lo spettatore nella rappresentazione, a tinte (molto) fosche, del microcosmo scolastico; una sorta di arena, per studenti e insegnanti, in cui la sopravvivenza è la vera posta in gioco, in cui un'istituzione ormai priva della sua ragion d'essere ha costretto gli uni e gli altri a una lotta senza vincitori o vinti, aggressori o aggrediti, colpevoli o innocenti. I ruoli si confondono, si svuotano di significato, mentre l'essere umano, lasciato solo, appare in tutta la sua inadeguatezza; il programmatico distacco di Henry sembra l'unica soluzione praticabile, e paradossalmente l'unica in grado di lasciare un qualche segno (benché piccolo) sulle esistenze che si limita a sfiorare. Una soluzione che funziona finché dura: la giovanissima prostituta Erica riesce a fare breccia nella corazza del protagonista, riportando alla memoria (e a una forma coerente) un passato fatto di sprazzi di ricordo sepolti, restituendo il giovane insegnante a una umanità che ne decreta però l'inevitabile resa. Una breccia che, quando è aperta, lascia passare di tutto: anche il dolore dell'intelligente e problematica Meredith, alunna artista interpretata dalla figlia del regista Betty Kaye. A poco serve l'allontanamento forzato, o i tentativi di ricostruire una barriera ormai caduta: le macerie lasciate da quest'ultima, come quelle di Casa Usher nel racconto (esplicitamente citato) di Edgar Allan Poe, trascineranno con sé Henry (e non solo lui) ma forse gli daranno anche l'opportunità di rialzarsi. Se Detachment - Il distacco manca a tratti di compattezza, se la sceneggiatura sceglie di soffermarsi su alcuni aspetti ignorandone in modo discutibile altri (come il rapporto dell'insegnante col complesso dei suoi studenti), se alcune concessioni allo spettatore appaiono fin troppo evidenti e ai limiti del ricatto (l'allontanamento di Erica) non si può, comunque, non riconoscere al film di Tony Kaye una forza cinematografica notevole: nel progressivo attachment del protagonista verso la realtà, e verso coloro che la popolano, il film cambia forma, facendo cadere la maschera del mockumentary e assumendo la sua propria consistenza da (melo)dramma. Il regista lascia Henry a metà del tragitto, tra le macerie ancora fumanti da lui stesso generate, tra i lutti e l'instabilità e la confusione: ma l'ultima sequenza appare esplicita nella sua programmaticità, nella sua voglia di mostrare, in modo limpido e consapevole, un possibile approdo. La direzione è stata tracciata, o quantomeno (convintamente) suggerita.
Movieplayer.it
3.0/5