Sembra strano aver aspettato tutto questo tempo per poter scrivere finalmente la recensione di Dogtooth, il secondo film del regista greco Yorgos Lanthimos rimasto inedito da noi in Italia per ben undici anni dalla sua uscita. In questa attesa snervante e inspiegabile, nel frattempo, Lanthimos non è rimasto con le mani in mano e ha realizzato altri quattro film che ben conosciamo. Infatti, a partire da The Lobster del 2015, anche il pubblico italiano è riuscito a conoscere e apprezzare in misura via via sempre maggiore il cinema del regista greco che, seppur evolvendo nello stile e nella capacità di accogliere un pubblico sempre più eterogeneo (ne è un esempio il successo della sua ultima fatica, La favorita, che toccò le 10 candidature agli Oscar), è rimasto anche fedele a se stesso. Per questo l'uscita di Dogtooth nelle sale italiane, seppur in incredibile ritardo, ha il sapore di una vittoria: finalmente il film sconfina dal territorio del cinefilo più hardcore, capace di rivolgersi all'estero e di padroneggiare al meglio le lingue straniere, e si offre al grande pubblico che può affrontare questo tassello mancante della filmografia di Lanthimos senza timore. Tornare indietro nel tempo, al suo secondo lungometraggio e primo vero grande titolo con cui Lanthimos iniziò a costruire la sua carriera su scala internazionale vincendo al 62esimo Festival di Cannes la sezione Un certain regard, significa, però, anche approcciarsi al film contestualizzandolo all'anno di uscita e cercando di dimenticare i film successivi del regista per non incorrere nell'errore di paragoni azzardati con film che, all'epoca di Dogtooth, ancora non esistevano.
Una storia "educativa"
La trama di Dogtooth si riassume in pochissime righe. Chiusi in casa e senza possibilità di conoscere il mondo esterno, due sorelle e un fratello ricevono un'educazione particolare dai loro genitori che pretendono il controllo e l'utopia di una vita perfetta. I figli sono cresciuti con un lessico diverso dal normale (dove il mare è una sedia e gli zombie sono fiorellini gialli), una concezione diversa dalla realtà (il gatto è l'animale più pericoloso del mondo capace di uccidere e mangiare le persone) e dove la tv si accende unicamente per vedere vecchi filmini di famiglia. Un agente esterno, introdotto dal padre per lasciar sfogare gli istinti (pressoché inesistenti) sessuali del figlio, inizierà a rompere gli equilibri fino a quel momento perfetti facendo sorgere dei dubbi soprattutto da parte della sorella maggiore. Nessun nome, nessun carattere forte, solo la completa passività e l'alienazione costituiscono il ritratto di questa famiglia. Non importa scoprire i motivi di quest'educazione straniante e particolare, Lanthimos si interessa di più allo studio delle persone, come fossero vetrini da mettere sotto la lente del microscopio, e alle conseguenze che può avere la chiusura dal mondo esterno. Perché poi, cosa succede quando si viene contaminati senza preavviso?
Freddo come il ghiaccio, travolgente come una valanga
Dogtooth è un film cinico, freddo, geometrico, che racconta le vicende con un occhio esterno e poco partecipe che ricorda il cinema di Michael Haneke e che, col procedere della sua carriera, Lanthimos svilupperà sempre di più, anche smussandone i lati più spigolosi. Ma nel 2009, il regista era ancora agli inizi e Dogtooth, pur non essendo acerbo, mostra il fianco a una certa "autorialità" ostentata che può risultare ostica. Non sempre il ritmo del film, compassato e costante, mantiene alta l'attenzione, soprattutto durante la seconda metà e poco prima del climax finale, e qualche sequenza, di breve durata ma davvero molto violenta, può turbare lo spettatore più sensibile. Eppure proprio in questa rigidità stilistica e nelle conversazioni artificiose dei personaggi si trova la bellezza del film, capace di anestetizzare ma anche di colpire duro, di cullare e di travolgere. Dogtooth usa lo spettatore come cavia alla strenua dei genitori del film, lo educa alla sua maniera: a volte lo seduce e lo ringrazia, altre lo respinge e lo punisce. E nonostante questo riesce persino a dimostrare lampi di humor, molto dark, che lo trasformano in una commedia dell'assurdo. Il cinema di Yorgos Lanthimos è tutto in questi 90 minuti.
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La famiglia perfetta
In un film così attento e focalizzato sulle interpretazioni attoriali, vero e proprio ago della bilancia capace di rendere il film credibile o insostenibile, non possiamo non citare il cast composto dai cinque personaggi principali che, seppur in misura diversa tra di loro, riescono a dare quella marcia in più tanto da rendere Dogtooth un film memorabile. Se il personaggio della madre è quello più sacrificato (ma attenzione a come è inserita nelle inquadrature collettive, in secondo piano ma sempre presente) e quello del padre fa la figura del demiurgo, sempre fedele a se stesso e preciso nelle sue decisioni, con poco spazio per eventuali evoluzioni o dar prova di un ampio raggio di spettro emotivo, è nella triade composta da Hristos Passalis, Angeliki Papoulia e la compianta Mary Tsoni che il film trova uno dei suoi punti di forza. Stessa educazione ma caratteri diversi, i tre figli racchiudono nei loro sguardi vuoti, nelle loro parole forzate e pronunciate, nei movimenti del corpo, nel modo in cui si siedono o cercano il contatto fisico, tutte le conseguenze dell'assurda educazione dei loro genitori, volonterosi di costruire un'utopia perfetta e controllabile contro il caos del mondo esterno.
Conclusioni
Concludiamo la nostra recensione di Dogtooth con un avviso per gli spettatori: è un film allo stesso tempo respingente e appassionante, non sempre perfettamente riuscito, ma sorretto da un ritmo costante -seppur compassato- e da interpretazioni perfette per la materia. Certo, il regista greco negli anni ha migliorato di molto il suo stile, ma gran parte della sua poetica è racchiusa in questo gioiello di film, capace di colpire duro e, per chi crede di avere uno strano senso dell’umorismo, anche divertire. Non un film per tutti (ma uscendo con 11 anni di ritardo da noi crediamo che il pubblico sia ormai più smaliziato e riesca a goderselo), ma sicuramente un’opera coraggiosa e potente che difficilmente si dimentica.
Perché ci piace
- Le interpretazioni degli attori capaci di rendere credibile un vero e proprio teatro dell’assurdo.
- Lanthimos dimostra di essere già padrone dei propri mezzi e della propria poetica.
- Il finale rende il film memorabile e difficilmente si arriverà impassibili e freddi ai titoli di coda.
Cosa non va
- A tratti si nota che Lanthimos deve ancora limare le esagerazioni della sua autorialità.
- Alcune sequenze forti potrebbero turbare lo spettatore meno preparato a certe immagini.