Matteo Garrone ritrova la purezza nella violenza. Partendo da un fatto di cronaca raccapricciante, la vicenda del Canaro della Magliana, il regista lavora per sottrazione depurando la storia di tutti i dettagli morbosi e truculenti che rendono il fatto di cronaca nera ancora così celebre a trent'anni di distanza. L'intento del regista non è quello di ricostruire i fatti in modo cronachistico, tutt'altro, Garrone parte dalla figura del Canaro trasformando lui e tutti i personaggi che gli ruotano attorno in figure archetipiche. Dogman è ambientato in una comunità ristretta, uno squallido quartiere periferico in cui tutti si conoscono e conoscono i vizi degli altri. Proprio questa dimensione intima, questo microcosmo al cui interno si instaurano rapporti di potere ben precisi, funge da specchio di un macrocosmo più ampio che, a conti fatti, potrebbe simboleggiare la stessa Italia.
Matteo Garrone dimostra di trovarsi a suo agio esplorando l'orizzonte ristretto della periferia più squallida e malfamata. Dopo aver raccontato la criminalità con la C maiuscola in Gomorra, il regista ripiega su una dimensione più infima e mediocre. Il piccolo mondo di Dogman conta il salone di toelettatura per cani gestito da Marcello, il vicino compro oro, fino alla sala giochi frequentata da Simone, ex pugile violento, prevaricatore e cocainomane dedito alla piccola criminalità. Se non ci fosse l'accento romano parlato da molti personaggi a connotare localmente in qualche modo la vicenda, la periferia mostrata nel film sarebbe un luogo astratto, avulso dal tempo, sempre uguale nei suoi riti e nei suoi spazi. Marcello, separato, padre di una bambina che lo adora, è un'anima candida amante dei cani contagiata dall'ambiente che lo circonda. Debole, mingherlino, arrotonda le entrate attraverso il piccolo spaccio e subisce la volontà di Simone che lo coinvolge in piccoli furti e scorribande a base di coca. Coinvolto in un furto nel compro oro, Marcello si rifiuta di firmare la confessione che incastrerebbe Simone e si fa un anno di galera. Quando esce, consumerà una vendetta tanto improvvisata quanto violenta.
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Divisi tra umanità e ferocia
La misura della ferocia dell'universo dipinto da Matteo Garrone in Dogman ce lo dà l'incipit in cui un molosso attaccato alla catena prova ad aggredire Marcello, mentre lui cerca di rabbonirlo per lavarlo e portare a termine il suo lavoro. La stessa comunità in cui vive Marcello è un mondo a parte, governato da rapporti di forza brutali. Simone spadroneggia e accumula debiti rispondendo con la violenza a chi cerca di farlo ragionare, ma gli altri abitanti del quartiere non sono da meno. Pur conoscendo la debolezza di Marcello, nessuno gli dimostra solidarietà, ma tutti sono pronti a voltargli le spalle e urlargli contro come cani rabbiosi. In questo ambiente ferino Marcello è l'unico a conservare una sorta di purezza che gli appartiene nonostante i crimini da lui compiuti. Soggiogato da Simone, intimorito e affascinato al tempo stesso dalla sua brutalità, Marcello spaccia, partecipa ai furti eppure il male non sembra penetrare la sua anima.
Quando lo vediamo insieme alla figlia o agli amati cani, la sua aria stralunata, la voce buffa, la corporatura da bambino evocano un senso di candore e purezza. La qualità della recitazione di Marcello Fonte, felice scoperta di Garrone, evoca la fisicità di Buster Keaton o Charlie Chaplin nell'ombra di una comicità antica, quasi da slapstick. Il felice connubio tra Marcello e i cani con cui lavora, dimostrando nei loro confronti un'infinita tenerezza, donano una patina di humor alla prima parte del film. Tornando alla metafora canina, se Simone può essere accostato a un cane rabbioso che attacca chiunque si gli pari a tiro, Marcello possiede la mitezza del cane da compagnia e dimostra lealtà anche nei confronti di chi, come Simone, non la meriterebbe.
Ritorno all'essenziale
La scelta di Matteo Garrone di depurare la vendetta di Marcello dei tratti di raccapricciante ferocia che caratterizzano il fatto di cronaca restituisce purezza e potenza al racconto. Garrone scava fino ad arrivare all'osservazione degli istinti più reconditi dell'essere umano. La sua regia è essenziale, priva di abbellimenti, lucida e attenta a cogliere i tratti più caratteristici dell'ambiente e dei personaggi. Così mentre i campi stretti rubano sguardi fugaci, gesti di stizza, lunghi silenzi o vengono usati in rapida sequenza per le scene più concitate, i campi larghi danno respiro alla storia permettendoci di esplorare con lo sguardo il quartiere, personaggio tra i personaggi. Uniche concessioni al rigore sono le rapide immagini di fondali marini, squarcio di una felicità possibile per Marcello e della figlia, appassionata di diving.
La semplicità della grammatica filmica, supportata da una fotografia plumbea e desaturata, riflette il funzionamento della mente di Marcello. Là dove vige la legge del più forte, dove il prepotente instilla la paura e la violenza ha la meglio sulla ragione, il desiderio di Marcello è quello di essere riconosciuto come essere umano. La sua vendetta nasce dalla necessità che gli venga riconosciuto ciò che gli spetta, che sia la sua parte di bottino della rapina o più semplicemente delle scuse. "Chiedimi scusa e la finiamo qui" esclamerà l'uomo rivolto a Simone producendosi in una richiesta infantile, come se ciò che ha dovuto sopportare fosse la conseguenza di un semplice gioco tra bambini. Perché alla fine dei conti ciò che Marcello vuole è essere amato da tutti, anche dai prepotenti o dalle bestie.
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4.0/5