Detrattori o estimatori, amanti o ostili, tutti saranno d'accordo che è ragionevole affermare, periodo di declino compreso, che Luc Besson sia probabilmente uno degli esponenti più riconoscibili del cinema pop internazionale ad aver portato sul grande schermo le storie di outsider. Lo è nella misura in cui è uno degli ereditieri di una lunga tradizione di cinema francese che ha avuto gli underdogs come interesse primario per diversi anni, rendendoli protagonisti di storie di riscatto, di redenzione o adoperandoli come strumento di analisi sociologica e politica. Un discorso che può essere fatto risalire addirittura alla Nouvelle Vague, anche se il regista parigino ha bypassato spesso e volentieri metafore e funzioni rivelando, fondamentalmente, un sincero innamoramento nei loro confronti.
Mondi, storie e personaggi che hanno attraversato generi, oceani, ere storiche e galassie e che in Besson, da buon figlio della controcultura degli anni '80 e artista a cui è stata data la possibilità di valicare i confini prima transalpini e poi europei, ha elevato a suoi idoli identificativi, mettendoli in scena in una maniera così efficace da renderli protagonisti di cult ancora oggi nell'immaginario popolare.
Dogman (qui la nostra recensione), presentato a Venezia 80, è una retrospettiva di queste figure. Un film completamente dedicato alla costruzione di un outsider che è anche summa di tanti altri della filmografia del regista, il quale ha trovato in Caleb Landry Jones uno dei volti più importanti della sua ultima stagione cinematografica, nel ruolo salvifico dell'arte un ingrediente di indubbia provenienza autobiografica e nei cani l'elemento di fiaba utopico che è tipico del suo cinema, quasi mai disperato, quasi mai negativo. Nonostante tutto.
L'importanza di essere un outsider
È incredibile come la sua produzione poetica possa essere letta in questo senso grazie a DogMan, trovando nel protagonista del suo primo lungometraggio, l'uomo senza nome del mondo post apocalittico di Dernier Combat, una tabula rasa sulla quale poter cominciare a costruire una figura più complessa. La tappa zero di un processo che Luc Besson comincia adoperandola come spazio per costruire uno specchio di se stesso, che è un buon modo per inquadrare la figura di Fred Gesberg, l'outsider con il volto di Christopher Lambert che contribuisce al successo di Subway, una pellicola originale per raccontare le banlieue parigine. Un titolo sottovalutato, che molto anticipa del futuro percorso del cineasta.
Dogman: perché è il miglior film di Luc Besson dai tempi di Léon
La ricerca del reale lo porta a girare Le Grand Bleu, ispirato alla storia dell'apneista Jacque Mayol, l'underdog che da un'esistenza in frantumi divenne un campione sportivo in conflitto con la vita considerata normale. Il film della svolta, precedente a Nikita, che è invece il suo primo cult, oltre al titolo che ha inaugurato la serie di collaborazioni, fortunate o meno, tra il regista parigino e le interpreti femminili.
La presenza delle radici nella tradizione del cinema francese nella filmografia di Besson citate in apertura sono anche le basi sulle quali prende forma la pellicola con protagonista Anne Parillaud, in cui una ragazza emarginata, ma con capacità straordinarie, si trova costretta vivere una vita di convivenza con la società in cui è nata oppure morire. Un primo arco narrativo veramente compiuto dell'outsider per il regista, che nel corso del film passa da elemento scomodo e pericoloso ad un fiore prezioso, che alla fine la società stessa non merita di possedere. Un trionfo totale arrivato come culmine di una prima parentesi di carriera che ha attraversato fantascienza distopica, poliziesco, melò, biografia e thriller.
Icaro che volta troppo vicino al Sole
La trilogia del periodo d'oro di Besson comincia con Léon, che è forse la pellicola in cui più si può trovare un sottotesto politico veramente rilevante, per quanto le soluzioni del film con Natalie Portman, Jean Reno e Gary Oldman rimangono votate alla decostruzione di qualsiasi sovrastruttura. Come se al cineasta parigino risultasse scomodo quel tipo di cinema o, meglio, come se ci fosse inciampato senza un'intenzione consapevole. Una grande pellicola che parla di rinascita comune e dell'altra faccia di una certa tipologia di outsider, rappresentante un sentimento che accoglie gran parte degli abitanti di certe realtà.
Il quinto elemento è decisamente più divertito, essendo, di fatto il Die Hard di Besson, in cui però il regista recupera l'elemento del duo e si permette anche di mettere da parte la sua versione (sfigata, ovviamente) di John McClane, sempre interpretata da Bruce Willis, per premiare la Leeloo di Milla Jovovich, l'underdog dell'Universo, che è allo stesso tempo il suo centro e l'unica speranza per salvarlo dall'estinzione.
Un ruolo che è una doppia folgorazione, per lo spettatore e per Besson, che si lega all'attrice russa e la sceglie come protagonista per il suo Giovanna d'Arco, la pellicola che tradì il regista parigino, rimasto schiacciato sotto il peso enorme di un titolo che rappresenta tutto il contrario di Leon, perché pensato solamente per accumulo di ricostruzioni storiche, dilemmi religiosi, filosofici esistenziali e scene di guerra. Icaro che vola troppo vicino al Sole.
Dogman, il regista Luc Besson: "Ognuno può essere un supereroe"
Da qui il decadimento post anni Duemila, diviso tra un recupero degli immaginari legati alla propria infanzia, come quelli che lo hanno portato a dedicarsi al mondo di Arthur o a portare su schermo il suo fumetto del cuore, Valerian e la città dei mille pianeti, e una goffa sortita in altri lidi cinematografici, come testimonia il mafia movie d'ispirazione scorsesiana Cose Nostre - Malavita. Il più a fuoco, tra tutti questi titoli, rimane Lucy, che è una sorta di remake di Nikita e anche quello che assomiglia di più a Dogman. Il che è tutto dire.
Il ritorno a se stesso
Arriviamo ai giorni nostri e al Festival del Lido, dove viene presentato Dogman, una pellicola che arriva sulla scia di un movimento culturale che sta rinnovando le tematiche care alla poetica di Besson e che ha trovato il proprio culmine a livello di immaginario popolare nel Joker di Todd Phillips, un titolo a cui tra l'altro il film con protagonista Caleb Landry Jones è stato accomunato più volte.
I difetti della pellicola del cineasta francese sono tutti associabili alla sua estrema volontà di tornare a crearsi un alter ego che fosse in grado di attraversare i tempi del suo cinema, raccontandolo quindi fin dall'infanzia e cercando di essere minuzioso, quasi pedissequo, nella sua caratterizzazione. Come se sentisse la necessità di giustificare ogni passaggio, anche minuscolo, che lo ha portato ad essere una persona al di fuori della società, ma che è comunque in grado di guidare il proprio gruppo, prima quella costituita dai cani e poi quella umana. Di fatto il film non si interessa a nient'altro.
Dogman: tutto quello che c'è da sapere sul film di Luc Besson
Il salto di Dogman è proprio questo: si racconta un emarginato che è diventato il capo di una società parallela, al di fuori di quella ordinaria. Una società fatta dalla comunità queer, da Shakespeare e da voci soavi. Una società oltre la società che è anche una sorta di nuovo eden per Besson, il quale, attraverso il suo protagonista, si trova in ultima istanza quasi a chiedere scusa di fronte a Dio, che in un certo modo ha cercato di spezzarlo senza riuscirci. Per lui desiderare altro per se stesso o divenire altro da quello che è stato destinato ad essere è un peccato. Un peso che solamente i veri outsider possono portare.