Nel dicembre 1961, nell'Italia del boom economico e con la rivoluzione sociale alle porte, arrivava sul grande schermo un film che raccontava uno spaccato del nostro Paese: Divorzio all'italiana. Diretto da Pietro Germi, il film è ambientato in una Sicilia che non esiste più, ma che in quegli anni appariva del tutto fuori dal tempo, con regole sociali arcaiche e condotte morali discutibili, ancorate a una cultura maschilista, reazionaria e retrograda. Divorzio all'italiana pone in particolare l'accento sul cosiddetto delitto d'onore, un tempo previsto dal codice penale italiano e definitivamente abrogato solo nel 1981.
Ma c'è molto altro, naturalmente. Divorzio all'italiana è innanzitutto un grandissimo film, uno tra i tanti della carriera di Germi, straordinario regista sempre troppo poco considerato; può vantare un grandissimo cast, dal quale spicca in maniera preponderante un Marcello Mastroianni in stato di grazia; a completare il quadro vi sono anche le splendide musiche del maestro Carlo Rustichelli. Andiamo dunque a riscoprire questa pellicola intramontabile, che oggi è possibile considerare come il ritratto di un'epoca.
1. Le "avventure" del barone Fefé
Primi anni Sessanta. Nella cittadina siciliana di Agramonte vive la nobiliare famiglia Cefalù, il cui riferimento è il barone Ferdinando, detto Fefé (Marcello Mastroianni). In realtà, la sua è una nobiltà decaduta, come per tutti i titoli con l'avvento della Repubblica, i quali non hanno più alcun valore. E, peraltro, la condotta morale della famiglia Cefalù è tutto fuorché "nobile": il padre di Fefé, don Gaetano (Odoardo Spadaro) non ha più freni inibitori e tormenta la giovane serva, Sisina (Margherita Girelli); sua sorella, Agnese (Angela Cardile), è promessa sposa con il giovane Rosario Mulé (Lando Buzzanca) e non perde tempo per intrattenersi con lui, nonostante prima delle nozze non dovrebbero neppure scambiarsi un bacio; e poi c'è sua moglie, Rosalia (Daniela Rocca), petulante, irascibile e intrattabile. Nell'ala opposta della casa vi è un'altra parte della famiglia, guidata dallo zio Calogero (Ugo Torrente), e con cui i rapporti sono continuamente tesi.
Dopo quindici anni di matrimonio, però, don Ferdinando si accorge ogni giorno di più di non sopportare Rosalia: la vera ragione non è tanto nel carattere della donna, quanto nel fatto che egli si è invaghito della giovane cugina Angela (Stefania Sandrelli), che lo inizia a ricambiare nonostante il loro rapporto porterebbe a uno scandalo di proporzioni inimmaginabili. Pervaso dalla noia e affaticato dalla calura estiva siciliana, Fefé architetta un piano folle e terribile, ma che si muoverebbe sul filo di ciò che la legge consente in assenza del divorzio: uccidere Rosalia servendosi del delitto d'onore, liberandosi della sua presenza e potendo così convolare a nozze con Angela. Grazie a uno specifico articolo del codice penale, il reato di omicidio sarebbe nettamente alleggerito in sede di condanna, se chi lo commette è spinto da ragioni che riguardano la propria onorabilità, lesa da una donna adultera colta in flagranza con un altro uomo. Ma chi potrebbe portare Rosalia sulla via del tradimento? Forse il pittore Carmelo Patané (Leopoldo Trieste), suo amore d'un tempo...
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2. In quest'angolo di Sicilia
Sole. Caldo. Venditori ambulanti per le strade deserte. Circoli di conversazione pieni durante il giorno. L'attesa dal barbiere come momento di pettegolezzo. La domenica tutti in Chiesa. La Sicilia del 1961 era realmente questa, e Pietro Germi, insieme a Ennio De Concini e Alfredo Giannetti (che con il regista hanno firmato la sceneggiatura, alla quale collaborò anche il non accreditato Agenore Incrocci) l'ha raccontata perfettamente.
Agramonte, in realtà, è una città immaginaria. Ma esistono, eccome, i luoghi nei quali gli esterni del film vennero girati. Ispica e Ragusa Ibla, innanzitutto, ma anche Catania e alcune zone della costa ionica. È la Sicilia orientale del barocco settecentesco, quello che permise a queste città di rinascere e rifiorire dopo il devastante terremoto del 1693. Uno stile architettonico pieno di dettagli e sfumature, di opere dentro altre opere, vedasi i dipinti nelle volte dei palazzi, i balconi sorretti da sculture, le facciate imponenti delle chiese che raccontano altre storie oltre quelle dei santi cui esse sono dedicate. Ma un'arte che appare spesso sospesa nel tempo caratterizza anche le persone che circonda, e don Ferdinando Cefalù ha assimilato quella insofferenza, proiettandola sulla sua sfera sentimentale. Basta sopportare una moglie insistente e che vuol sapere quanto lui le voglia bene, basta sopportare la routine che lo ha sfiancato. Perché lui è un uomo, un rappresentante di una società incentrata sui maschi ai quali tutto è concesso: divertimenti, svago, difesa dello status quo, diritto a campare di rendita (senza lavorare un solo giorno) e, soprattutto, a fuggire dalla noia.
Ma se è vero che in questo angolo di Sicilia narrato da Germi l'Ottocento sembrava non essere mai finito, è ancor più vero che la legge italiana del secondo dopoguerra era ancora incagliata in alcune convenzioni e regole sociali provenienti dalla dittatura fascista e dallo Statuto Albertino, che affondava a sua volta le proprie radici nel diciannovesimo secolo, sia agli anni precedenti al Risorgimento che a quelli immediatamente seguenti. Dove i diritti erano garantiti solo ai nobili, al clero e ai ricchi, e solo se uomini. Le donne, invece, erano un semplice complemento sociale. Così, non può certo stupire se nel codice penale introdotto nel 1930 trovava posto un articolo come il 587, che al comma primo recitava: "Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell'atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d'ira determinato dall'offesa recata all'onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni". Una riduzione sostanziale del reato di omicidio, la cui sanzione è sempre stata molto più grave, concessa per il solo fatto della "difesa dell'onore". A questa follia avrebbe messo la parola fine la legge 442/1981, che abrogò tanto l'art. 587 quanto il 544 (matrimonio riparatore) e 592 (abbandono di un neonato per causa di onore). Tutte norme figlie di una stessa mentalità arcaica, che nulla poteva avere a che fare con uno stato di diritto moderno e una repubblica democratica.
Divorzio all'italiana, oltre ad essere un film estremamente importante della cinematografia italiana sul piano puramente artistico, è dunque un manifesto che racconta un'epoca: utilizza una pungente ironia e geniali intuizioni narrative, ma rimane perfettamente aderente alla realtà storica, più volte descritta dalle pagine di cronaca.
3. Uno straordinario Marcello Mastroianni
Giunto oltreoceano dopo aver ricevuto un importante riconoscimento al Festival di Cannes, Divorzio all'italiana ottenne un ottimo riscontro di critica e pubblico, tanto da arrivare ad ottenere tre candidature ai Premi Oscar del 1963. Vinse la statuetta per la formidabile sceneggiatura; le altre nomination andarono alla regia di Pietro Germi e all'interpretazione straordinaria di Marcello Mastroianni, il quale aveva già raccolto ampi consensi nei primi anni di carriera ma, paradossalmente, venne candidato prima dall'Academy statunitense che dall'Accademia dei David (la prima nomination sarebbe arrivata nel 1964 per Ieri, oggi, domani). Per il ruolo del barone Fefé, Mastroianni ottenne anche la vittoria ai Golden Globe e ai BAFTA britannici.
Già presente in oltre cinquanta film nei primi anni di attività sul grande schermo, la consacrazione per l'attore di Fontana Liri giunse con alcune bellissime commedie, il cui apice fu I soliti ignoti di Mario Monicelli (1958), ma soprattutto con La dolce vita (1960), il capolavoro di Federico Fellini. Così, Mastroianni, spaziando tra generi, prese parte a film sempre più impegnativi, attraverso i quali poteva sentirsi libero di esprimere l'incredibile talento recitativo. I suoi anni Sessanta si avviarono con il già citato affresco felliniano, quindi con Adua e le compagne e Fantasmi a Roma di Antonio Pietrangeli, Il bell'Antonio di Mauro Bolognini, La notte di Michelangelo Antonioni e L'assassino di Elio Petri, prima di passare a Divorzio all'italiana. I tic nervosi, la postura flaccida, l'aspetto compiaciuto e un perfetto accento siciliano, nonostante non parli quasi mai in dialetto: don Ferdinando Cefalù è un personaggio indimenticabile del cinema italiano.
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4. Pietro Germi, un autore da riscoprire
Regista, attore, sceneggiatore e produttore: un uomo di cinema nel senso più ampio, ma che non trova il giusto risalto negli annali, come invece meriterebbe. Pietro Germi era un attento osservatore dell'evoluzione sociale: le sue opere raccontavano storie di persone ma anche il contesto nel quale le loro azioni si sviluppavano, nel bene e (più spesso) nel male.
Dopo il magnifico Un maledetto imbroglio (1958), nel quale era anche protagonista nel ruolo del commissario Ingravallo (il film era ispirato al romanzo di Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana), Germi tornò esclusivamente dietro la macchina da presa per dedicarsi alla Sicilia e alle sue contraddizioni. Egli adorava l'isola: ne amava i paesaggi, l'arte, l'architettura, la storia, e anche la gente. Ma non poteva accettare fino in fondo che il cambiamento non fosse mai arrivato in quella terra, soffocata dalla cattiva politica, dalla criminalità organizzata e da una scolarizzazione non adeguata, oltre a una cultura che, come accennavamo in precedenza, era ancora legata alle tradizioni tardo ottocentesche. Così, Germi non risparmiò una dura critica alla Sicilia e alle sue problematiche, attraverso due film che è possibile analizzare tanto sul piano narrativo ma anche sociologico: Divorzio all'italiana, ovviamente, e il successivo Sedotta e abbandonata (1964), nella quale accanto a tematiche simili a quelle dell'opera precedente emersero toni ancora più amari e rassegnati.
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5. "Canto d'amore" e le musiche di Carlo Rustichelli
A rendere Divorzio all'italiana ancora più speciale è la colonna sonora di Carlo Rustichelli, uno dei compositori più importanti nella storia del cinema italiano. Il musicista di Carpi, punto di riferimento di tantissimi registi attivi nell'arco tra gli anni Quaranta e Settanta, è stato autore di oltre 250 colonne sonore in carriera, e riusciva come pochi a adattare il proprio stile a vari generi: dall'avventura al film storico, dal dramma alla commedia.
Tutta la filmografia di Pietro Germi, a parte la sua opera d'esordio, Il testimone (1946), è caratterizzata dalle musiche di Rustichelli, che per il regista genovese ha scritto alcune tra le sue opere più belle. E, tra esse, ovviamente anche la partitura di Divorzio all'italiana. L'impostazione melodrammatica della colonna sonora è stata costruito su un attento studio della musica popolare siciliana, che emerge in Canto d'amore, il tema principale che ha una versione cantata (eseguita da Pino Ferrara) e altre orchestrali, in diverse sfumature. Ad esso si accompagnano eleganti e divertenti passaggi per archi, ma anche brani più solenni, tra cui la marcia triste più volte ripresa nel film.
Divorzio all'italiana, a sessant'anni dalla sua uscita, mantiene intatta l'originalità che solo il grande cinema può vantare.