Le rigide regole di una comunità di ebrei ortodossi nella Londra contemporanea, il tabù di un amore clandestino, proibito dal buon costume e dai dogmi del credo religioso, la forza e il coraggio di ribellarsi, il piacere della sovversione, il potere liberatorio del no.
L'esordio in lingua inglese di Sebastián Lelio passa da qui, da una storia di disobbedienza, come ci suggerisce lo stesso titolo Disobedience, senza farne troppo mistero. Il tema della ribellione alle costrizioni sociali o familiari non è nuovo nel cinema del regista cileno, che già aveva modo di parlarne con la grazia e la forza sovversiva che ormai lo contraddistinguono, nei suoi film più recenti Gloria - che nel 2013 lo consacrò nel panorama internazionale conquistando un Orso d'Argento per la miglior interpretazione femminile a Paulina Garcia - e Una donna fantastica, Oscar al miglior film straniero di quest'anno.
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Dal libro al film, una storia tra trasgressione e pregiudizio
Il soggetto, questa volta non originale, arriva dal romanzo omonimo di Naomi Alderman pubblicato nel 2006 e scovato qualche anno più tardi dalle due produttrici del film, Frida Torresblanco e Rachel Weisz, che ricopre anche il ruolo di una delle protagoniste, l'anticonformista Ronit rientrata a Londra da New York per i funerali del padre, stimato rabbino capo da cui si è allontanata anni prima per poter vivere liberamente.
Rivedere la più timida Esti (Rachel McAdams), con la quale da giovane aveva condiviso un amore fugace e proibito, ora sposata con suo cugino Dovid (Alessandro Nivola), riaccenderà l'antica passione, mai realmente sopita e ritenuta inaccettabile dall'intera comunità.
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Lelio, regista di rara sensibilità e compostezza
La regia di Sebastián Lelio si conferma di straordinaria sensibilità e rigore, in un crescendo emotivo che, complice una solida sceneggiatura, accompagnerà lo spettatore per tutte le due ore di film. Disobedience ha il pregio di entrarti dentro con lentezza, un dramma contemporaneo che dallo spazio claustrofobico e plumbeo dei rituali dell'ebraismo ortodosso finisce per assumere i contorni di una storia universale sul coraggio di liberarsi dai lacci che quotidianamente stritolano, soffocano e opprimono una già malconcia libertà d'espressione. E per difendere la propria, ognuna delle due protagoniste lotterà con modi e tempi diversi: Ronit lo farà con pacata irriverenza e ferma consapevolezza, Esti con silenziosa compostezza e instancabile passione.
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L'amore proibito tra Rachel McAdams e Rachel Weisz
La delicatezza con cui il regista racconta dell'amore saffico, proibito, nascosto e bandito, non risparmia neanche una delle scene di sesso più viscerali, che suggella l'inizio di una rivoluzione fino a quel momento reiterata e latente. È un film sussurrato, sospirato e misurato tanto nei silenzi quanto nelle esplosioni di rabbia e passione, che annuncia i suoi propositi sin dalla scena iniziale: un prologo in cui il rabbino capo è impegnato a declamare un sermone sul libero arbitrio prima di accasciarsi al suolo e morire. Da lì in poi tutto ruoterà attorno a quelle parole, quasi profetiche nell'economia della storia e che riecheggeranno in un'omelia pressoché speculare.
Alla definizione delle tensioni e degli equilibri sottili della narrazione, contribuiscono oltre che una regia funambolica, anche le prove attoriali di Rachel McAdams, Alessandro Nivola e Rachel Weisz potenti nel tratteggiare un triangolo dentro il quale si consumeranno interrogativi etici e piccole rivoluzioni. I corpi e gli ambienti illuminati dalla fotografia livida di Danny Cohen (Premio Oscar per Il discorso del re) faranno il resto. Fino alle parole liberatorie e catartiche di Dovi: "Non c'è nulla di più tenero o veritiero del legittimo sentimento di essere liberi". Un sigillo, un monito, un manifesto.
Movieplayer.it
3.5/5