Dirty Pop: la truffa delle boyband, recensione: l'arte della truffa è un brano incomprensibile

La recensione di Dirty Pop: la truffa delle boyband, docu-serie in tre episodi disponibile su Netflix dove la storia del manager di boyband come BSB e *Nsync, Lou Pearlman, si tramuta in indagine (im)perfetta sull'arte della truffa.

Una foto della docu-serie Dirty Pop

C'è una presa di coscienza sempre più incalzante sui social che vuole la generazione nata a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta come la detentrice di una musica del tutto unica. Un universo che il documentario Dirty Pop: la truffa delle boyband disponibile su Netflix indaga, recupera, inserendosi tra i tratteggi di una personalità come quella di Lou Pearlman, manager e fautore primordiale di band come i Backstreet Boys, o gli *Nsync.

Che fosse di qualità o meno, quella degli anni Novanta è stata un'ondata musicale irripetibile, dove il pop incontrava nuove icone da idolatrare e nuovi divi verso cui urlare. Erano gli anni del Girl Power e delle boyband, di TRL e dei poster sui muri. Erano gli anni del Lou Perlman burattinaio che tutto giostrava, manipolava, gestiva eliminando la concorrenza, alimentando il proprio monopolio. Lou Pearlman, da padre di una singola boyband, divenne padre di tante band clonate dal modello base; ma per alimentare una tale eredità servivano soldi... tanti soldi; ed ecco la stipulazione di continui investimenti, le promesse di pagamenti, i finanziamenti ceduti e mai saldati. Erano gli anni delle promesse e delle cadute, di tonfi dolorosi nascosti dietro a brani da urlare, a boyband da seguire, a successi da sfruttare.

Bye Bye Bye linearità di racconto

Dirty Pop Foto Docuserie Netflix
Lou Pearlman con una delle sue band

Se il contenuto di Dirty Pop: la truffa delle boyband è interessante è perché mostra la bugia dietro a quel sogno che vivevamo ballando e urlando a squarciagola brani come Everybody e It's gonna be me. E se il successo a cui fa riferimento la serie non fosse mai esistito, allora un brano come quello degli Nsync ("Bye Bye Bye") non sarebbe stato inserito in una colonna sonora come quella di Deadpool & Wolverine (qui la nostra recensione). Le due boyband sono entrate non solo nell'immaginario collettivo, ma nello spazio di una cultura musicale* che hanno loro stesse rivoluzionato, modificato, segnandola per sempre. Un impatto fragoroso, dietro cui si nascondono movimenti loschi e al limite della criminalità. Eppure, quel meccanismo illegale che vive nello spazio dei raccordi del documentario di David Terry Fine viene gestito con fare sconclusionato. In un via vai cronologico, che passa con nonchalance dalla fine degli anni Ottanta, alla metà degli anni Duemila (e viceversa) la benzina che alimenta la macchina del racconto si perde lungo il cammino, facendo sì che il viaggio vada a rilento, e la strada principale si sostituisca a una scorciatoia tortuosa e disorientante.

Sguardi in macchina e montaggi disarmonici

Dirty Pop Foto Di Scena Serie
I Backstreet Boys, una delle band di Lou Pearlman

C'è sempre una fastidiosa sensazione di perdita e mancanza nel corso di Dirty Pop: La truffa delle boy band. È come se ciò che viene offerto al proprio pubblico scivoli via tra le mani, perché incapace di rimanere attecchito a livello mentale. Non si lascia mostrare del tutto, la storia alla base del documentario; spiegandosi malamente, preferisce tergiversare per minuti e minuti, senza raggiungere una risoluzione completa e soddisfacente. Gli stessi passaggi che portano ai procedimenti giudiziari contro i BSB e gli Nsync non vengono propriamente spiegati e scandagliati; sono momenti solo suggeriti. Tutto si sussegue in maniera disarmonica. Piuttosto che seguire un percorso lineare, gli elementi vengono restituiti a sprazzi, affidando la loro potenza a testimonianze dirette di chi Pearlman l'ha conosciuto, abbandonato, denunciato o indagato. Ogni confessione rilasciata diviene un tassello da inserire a caso in un gioco di montaggio poco intrusivo. Proprio per controbilanciare uno scontro ad armi dispari, la complessità del montaggio viene sostenuta da una regia alquanto canonica, basilare e semplice, del tutto giocata su primi piani di uomini e donne che raccontano la propria esperienza guardando in camera. Ma l'interpellazione diretta non basta per dar via a un processo di affezione che ormai rasenta lo zero. Se non si comprendono le regole del gioco, non vi si può partecipare, e quello di Dirty Pop è un foglietto illustrativo complesso e disordinato*, che poco coinvolge e poco familiarizza con il proprio pubblico.

Troppa carne al fuoco, poco spazio sul barbecue

Dirty Pop Foto Di Scena Serie Netflix
Lou Pearlman, la figura che indata Dirty Pop

Stando al titolo stesso del documentario, Dirty Pop: la truffa delle boyband promette boyband e promette truffe. Ci vengono mostrati sia gli uni che le altre, senza essere mai spiegati a fondo. Se il concetto e i processi dietro al successo di Backstreet Boys e degli Nsync possono soddisfare gli orizzonti di attesa del pubblico, lo stesso non può dirsi di quelle frodi e quei giochi psicologici che si celavano dietro la figura di Lou Pearlman. Parlare di finanza, investimenti e truffe non è facile; si entra in campi accidentati, in sabbie mobili pronte ad assorbirti e imprigionarti in una grande nube di dubbi e questioni irrisolte. Si pensi solo alla complessità di esposizione vantata da una sceneggiatura come quella de La grande scommessa di Adam McKay; eppure, sfruttando la scia degli esperti e dei personaggi direttamente coinvolti nella vicenda, tutto poteva risultare più comprensibile e facilmente afferrabile al proprio pubblico. Il tronfio desiderio di offrire un materiale quanto più interessante possibile, aggiungendo troppo carne al fuoco* su un barbecue minuscolo, ottiene il risultato opposto a quello sperato: il montaggio è incoerente, tortuoso; tenta di spingersi oltre all'ordine cronologico, saltando da un anno all'altro, a una truffa all'altra, inserendovi qualche testimonianza qua e là, senza accorgersi che ogni raccordo è un interrogativo in più che si accumula nella testa del pubblico.

Dirty Pop Foto Serie Netflix
Dirty Pop: The Boy Band Scam, una scena della serie Netflix

Dirty Pop è come una boyband di talento, costretta a cantare brani superficiali e poco impattanti. Se non avesse alle spalle la creazione di gruppi come i Backstreet Boys, o gli *Nsync probabilmente questa docu-serie in tre episodi non avrebbe avuto la medesima risonanza che invece ha ottenuto. Rimarrebbe una storia assurda, di umana cupidigia e meschinità, ma nulla più. E allora, ecco che si insinua sempre più a fondo il dubbio che oltre a quelle di Pearlman, anche il racconto che lo smaschera sia un'ulteriore truffa ai danni del proprio pubblico; in un'ora e mezza è come se ciò che viene così tanto promesso, architettato con maestria, e assicurato, non si concretizzi mai, riducendosi a un insoddisfacente pugno di sabbia.

Conclusioni

Concludiamo questa recensione di Dirty Pop: la truffa delle boyband sottolineando come la docu-serie in tre episodi disponibile su Netflix tenti di sfruttare l'interesse che si cela dietro la figura di Lou Pearlman non riuscendo però a organizzare e gestire a suo favore la mole di materiale e informazioni a propria disposizione. Causa un montaggio sconclusionato, e una regia fin troppo invisibile, Dirty Pop cede proprio nella restituzione di un'esistenza perfetta per il piccolo schermo, ma costruita con fare disarmonico e poco coinvolgente.

Movieplayer.it
2.5/5
Voto medio
4.1/5

Perché ci piace

  • I passaggi che hanno portato alla creazione del fenomeno delle boyband.
  • La durata degli episodi.

Cosa non va

  • Una regia fin troppo invisibile e semplicistica.
  • Un montaggio sconclusionato e incapace di gestire le varie sequenze.
  • Non aver sfruttato la portata delle testimonianze, le uniche potevano spiegare con semplicità argomenti complicati, come quelli finanziari.