Sono capricciosi, egocentrici, fragili e cedono facilmente alle lusinghe della chirurgia estetica. No, non ci riferiamo agli attori, ma agli stilisti che, dopo aver vestito le star e creato i costumi per delle pellicole da Oscar, ora si sono trasformati nei protagonisti del grande schermo con documentari e biopic dedicati a loro. Ovviamente, il battesimo del cinema è stato elargito solo ai più grandi, ossia a quelli che, definendosi ancora sarti, sono stati capaci di influenzare lo stile e il costume di una società globale. A dimostrare il loro potere cinematografico sono, ad esempio, prodotti sempre di moda come Sex and the City e Il diavolo veste Prada, che sul fashion e il suo mondo hanno basato gran parte del successo ottenuto. Oppure i ritratti intimisti, che hanno perfino rischiato di correre per l'Oscar tra i film stranieri. E, rimanendo proprio in tema, dal 4 giugno arriva al cinema Dior and I, un documentario in cui viene fotografata la realizzazione di una collezione tra fervore artistico ed ansia da prestazione.
Protagonista è Raf Simons, stilista e neo direttore della Maison Dior che, nella preparazione della prima sfilata haute couture deve confrontarsi con la presenza sempre tangibile dello storico fondatore, diventato negli anni mito, incarnazione di stile, innovazione e eleganza. Diretto da Frédéric Tcheng e presentato in anteprima mondiale al Tribeca Film Festival a New York nel 2014, il film documenta le sette settimane impegnate per portare in passerella la collezione e definire il successo o l'insuccesso di una carriera. La sfilata rappresenta un tuffo nel passato visto che, traendo ispirazione dalla prima collezione di Dior del 1947, ripropone una donna in fiore tra abiti a ruota e un tripudio di tulle.
Un'esperienza cinematografica che, muovendosi tra la scoperta degli archivi, le prove e una quotidianità folle, promette di essere "sublime", come direbbe lo stesso Simons. Lo stile Dior, come abbiamo già accennato, non è stato il solo ad essere celebrato. Fanno bella mostra di se anche i documentari Lagerfeld Confidential e Valentino: L'ultimo imperatore. Anche se negli ultimi anni i più narrati dal cinema sono stati Coco Chanel e Yves Saint-Laurent. D'altronde, come direbbe proprio l'eccentrico Karl Lagerfeld, paragonati a loro gli altri fanno solo stracci.
Qui qu'a vu Coco?
Gabrielle Bonheur Chanel, in arte Coco, è la donna che ha rivoluzionato la femminilità riconsegnando al proprio genere la libertà e la consapevolezza del corpo. Con un certo azzardo, si può affermare che la rivoluzione sessuale iniziò proprio con lei attraverso l'abolizione del corsetto e la "scoperta" del jersey, utilizzato per imporre uno stile minimal. Grazie a Coco le donne non solo hanno iniziato ad indossare pantaloni, ma anche a muoversi più liberamente, rinunciando alla staticità fisica e culturale di una damina, come aveva preteso per troppo tempo la Belle Epoque. Ma chi era veramente questa donna tanto minuta nel fisico quanto possente nel carattere, capace di liberarsi da un passato di povertà ed ergersi a icona assoluta di stile tra storici tailleur in tweed, borse matelassé e fili di perle?
L'interrogativo rimane di per sé senza risposta certa, visto che la stessa Coco ha sempre dato versioni diverse riguardo la sua infanzia, tanto da costruire la mitologia Chanel. Un insieme di eventi che, tra orfanotrofi, la carriera come cantante, il primo amante Etienne de Balsan, il grande amore della sua vita Boy Capel e la boutique al 31 di Rue Cambon, non potevano che essere materiale perfetto per il racconto cinematografico. In particolare si sono fatti sedurre dal mito di Coco Jan Kounen, con il suo Coco Chanel & Igor Stravinsky, e Anne Fontaine, che ha diretto Coco avant Chanel - L'amore prima del mito. E proprio questo film, grazie anche all'interpretazione dell'esile Audrey Tautou, entrata perfettamente nel meraviglioso mondo di Coco, rappresenta l'opera più riuscita in cui la personalità della protagonista si fonde con le sue gesta professionali e con il cambiamento sociale e storico di un'epoca. A dimostrane il valore sono le molte nomination ottenute agli European Film Awards, ai BAFTA e ai César, per concludere con quella dell'Academy tributata alla costumista Catherine Leterrier. Perché riprodurre lo stile di Mademoiselle non è certo un gioco da ragazzi.
Due volte Yves
La personalità di Saint Laurent era così visionaria, romantica e con un forte retrogusto di oscurità da doversi dividere per essere raccontata in due pellicole diverse, uscite nello stesso anno. La prima, almeno dal punto di vista cronologico, è quella di Jalil Lespert. Il suo Yves Saint Laurent viene presentato al festival di Berlino nel 2014 e vede nei panni dello stilista il giovane Pierre Niney. Il secondo Saint Laurent, invece, porta la firma di Bertrand Bonello e conquista la croisette di Cannes con l'interpretazione vissuta e sofferta di Gaspard Ulliel, tanto da diventare il candidato della Francia per un'eventuale corsa agli Oscar come miglior film straniero. A questo punto, però, sorge una domanda; come è possibile far convivere due progetti simili senza che siano in concorrenza sfrenata uno con l'altro?
Nonostante le rassicurazioni di Bonello, sembra evidente che il timbro di 'ufficialità' sia stato impresso sul film di Lespert, visto che Pierre Bergé, ex compagno e storico socio di Saint Laurent, ha visionato e approvato il materiale. L'Yves di Bonello, invece, non ha ottenuto alcuna pubblica approvazione. Il che vuol dire completa autonomia nel materiale utilizzato e nell'interpretazione del personaggio. Questo ha dato vita ad un risultato più completo e sfaccettato, visto che in due ore e mezza il regista ha messo in scena vari aspetti, come l'uso di stupefacenti e l'omosessualità che, insieme ad una personale idea di bellezza, influenzata dall'amore per l'arte, il cinema e la musica, definisce tutta la complessità di un animo geniale. "Sono stato affascinato dalla decadenza, dai momenti in cui le cose sembrano sul punto di finire", ha dichiarato il regista che, parlando di moda, si concentra su due collezioni emblematiche: la tanto criticata Liberazione del '71 e la "mitica" Russian Ballet del '76. Con la prima Saint Laurent fa sfilare le sue modelle con abiti in stile dive del cinema degli anni '40 in piena epoca figli dei fiori, mentre nella seconda fa sentire tutta l'influenza orientale, come dei quadri di Matisse e Delacroix. Molti degli abiti che utilizzati nel film sono stati riprodotti mentre alcuni portano il marchio dell'originalità, provenendo da collezioni private.
La dinastia Versace e l'imperatore Valentino
Dopo House of Cards ecco arrivare The House of Versace, un film per la tv che, se non ha scosso i delicati equilibri del mondo della moda, ha sicuramente causato qualche pensiero alla sempre più bionda e magra Donatella Versace. Proprio lei, infatti, sembra essere al centro della vicenda che, partendo dal laboratorio di sartoria della madre a Reggio Calabria e passando per i successi degli anni Ottanta/Novanta, fino alla morte violenta del capostipite Gianni, fotografa una personalità indebolita dalla droga e dalla depressione. Tratto dal libro House of Versace: The Untold Story of Genius, Murder and Survival, scritto nel 2010 da Deborah Ball, giornalista del Wall Street Journal, il film è stato mandato in onda due anni fa negli Stati Uniti dal canale Lifetime, suscitando il disappunto della stilista. La qualità cinematografica del prodotto è piuttosto bassa, come hanno potuto constatare ultimamente gli spettatori di Sky Cinema, ma non è questo ad aver causato le ire di Queen Donatella. A preoccuparla è il resoconto degli anni turbolenti vissuti da una famiglia e una casa di moda privata improvvisamente del suo elemento più forte. In questo modo, tra intrighi, gelosie e lotte intestine, il fratello saggio Santo e la sorella scapestrata fanno bella mostra di sé grazie all'interpretazione di Gina Gershon e Colm Feore.
Per una dinastia che va arriva un imperatore, sempre firmato USA. Così ai Versace risponde niente meno che Vanity Fair con il documentario Valentino: L'ultimo Imperatore, diretto da Matt Tyrnauer, un giornalista della rivista. La pellicola, presentata alla 65ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, ha uno scopo celebrativo ricostruendo gli ultimi due anni di attività dello stilista Valentino Garavani, il maestro assoluto degli abiti da sera e l'uomo che ha dato il suo nome ad un colore. Nulla da eccepire sul prodotto finale che, pur non stupendo per particolari scelte di regia, mette in scena tutto il lusso e l'eleganza misurata di uno stile riconoscibile tra mille.
Il diavolo veste Prêt-à-Porter?
Tra gli ospiti del documentario dedicato a Valentino c'è anche lei, la temuta Anna Wintour, direttrice di Vogue America, la Bibbia per tutti gli amanti della moda e delle ultime tendenze. Di lei si dice che sia spietata, fredda, glaciale e impenetrabile. Oltre, naturalmente, a detenere il potere assoluto nel mondo del fashion. Per tutte queste caratteristiche, tra cui una vera e propria avversità nei confronti del sovrappeso, la Wintour è diventata fonte di ispirazione per il romanzo Il diavolo veste Prada. Scritta dalla sua ex assistente Lauren Weisberger, la vicenda è stata trasformata in una pellicola omonima di grande successo con una giovane Anne Hathaway alle prese con una spietata Meryl Streep, nel ruolo della direttrice di Runway, Miranda Priestly, anche lei ossessionata dalla magrezza, dal controllo e dalle pellicce proprio come la Wintour. Ovviamente nel film diretto da David Frankel fanno mostra di sé molti modelli esclusivi, visto che gli stilisti hanno fatto a gara per partecipare alla produzione, ma a prestare la sua immagine, interpretando se stesso, è solamente Valentino. Sembrerebbe, infatti, che, protetta nella roccaforte di Vogue, la Wintour abbia lanciato anatemi e minacce nei confronti degli stilisti che avessero osato prendere parte attivamente alle riprese. Notizia prontamente smentita dal suo ufficio stampa e oscurata dell'approvazione ottenuta dal film che, nel caso ce ne fosse ancora bisogno, dimostra come la Streep sia in grado di vestire qualsiasi nuance interpretativa.
Per concludere, non poteva mancare lo sguardo acuto di Robert Altman che, dopo I protagonisti, con Prêt-à-Porter offre un ritratto senza veli e privo di sconti sul mondo della moda utilizzando i toni della farsa e della commedia. Il film, in verità, non è stato accolto con grande calore, considerato quasi un Altman minore, ma è riuscito a scuotere gli addetti ai lavori delle passerelle, che non hanno accettato la definizione di moda come semplice azienda commerciale. Tutto comincia ad una settimana dalle sfilate parigine e c'è grande fermento nelle varie Maison. Nonostante questo, però, si verifica un evento tragico, che vede il presidente della Camera nazionale della moda morire soffocato nella sua macchina a causa di un sandwich. Il dramma si consuma di fronte agli occhi di Sergei Oblomov, un sarto russo arrivato per le sfilate. Questo, impaurito, si rifugia in un grande albergo, ruba una giacca a quadretti e si lancia alla ricerca di Isabelle, moglie del presidente, con cui aveva avuto una relazione anni prima. Il tutto mentre la polizia crede di trovarsi di fronte ad un omicidio. Sempre nello stesso albergo due giornalisti americani, inviati a Parigi, sono costretti a dividere la stessa stanza. Qui, complice la vicinanza e il romanticismo della città, si innamorano fino a trascurare il proprio lavoro.
E, alla fine, ecco arrivare le tanto attese sfilate popolate da stilisti isterici come Cort Romney, il suo avversario-amico, che dirige una équipe di modelle tutte di colore come lui, e madame Simone Lowenthal, il cui figlio vende l'azienda ad un industriale texano. Intorno a loro una squadra di truccatori, parrucchieri, travestiti e fotografi, oltre a tre tra le più quotate giornaliste di moda. E, per finire, l'eccesso a tutti i costi, utilizzato per stupire e far notizia. A seguire Altman in questa ricostruzione di un mondo effimero e con pochi scrupoli è un cast di stelle, tra cui sfilano la coppia Marcello Mastroianni/Sophia Loren, Kim Basinger, Julia Roberts, Tim Robbins e Rupert Everett, seguiti dai nomi più sfavillanti delle passerelle internazionali, da Naomi Campbell a Claudia Schiffer.