Uno dei punti cardine del postmodernismo in senso cinematografico è la rielaborazione di un codice "classico" attraverso la sua destrutturazione e successiva reinvenzione. Un meccanismo che ha una dimensione in realtà piuttosto fluida in termini di collocazione storica (è infatti stato adoperato da più cineasti nel corso del tempo) ma che ha acquistato uno spazio sempre maggiore negli ultimi anni. Nel senso più popolare il primo esponente importante è stato forse il nostro Sergio Leone, mentre il corrispettivo più recente è probabilmente Quentin Tarantino, guarda caso. Quest'ultimo è anche segnale di una configurazione iniziata negli anni '90 che collegò questa tendenza postmoderna a quella bruttissima parolaccia che si chiama "autorialità". Usiamo parolaccia dal momento che non si è mai capito bene quali siano le caratteristiche che differenziano un autore da un altro creativo o professionista del settore, tant'è che spesso da noi maledetti teorici è adoperato come un termine ombrello o salvagente, per farci capire pur rimanendo vaghi, ma senza rinunciare a darci un tono. Chi scrive lo continuerà ad usare, ovviamente.
Fatto sta che questa accezione del postmodernismo ha tutto sommato dato modo di far risaltare l'individualità del nome (dell'autore) di turno, dal momento che la maggior parte della riuscita dell'operazione filmica dipendeva dalla sua capacità personale di ragionare sul mezzo, sul genere (o sui generi) che andava a toccare e poi di riproporli. Pulp Fiction, per non far un nome qualsiasi, è un esempio perfetto. Ciò ha portato ad una nuova corrente cinematografica in cui lo stile, l'occhio, la poetica (un'altra parolaccia) del cineasta ha in un certo senso prevalso sul suo pensiero più ampio. Una delle massime espressioni di questo processo è Park Chan-wook, cineasta sudcoreano, ex critico cinematografico, premiato nel 2004 a Cannes per Old Boy con il Grand Prix della giuria guidata da Tarantino (non si nomina mai nessuno a vanvera qua) e poi nel 2022 sempre alla kermesse della Croisette per Decision to Leave con la Miglior Regia. Questo suo ultimo film è un saggio sull'evoluzione sopra descritta, sintesi formidabile tra le tendenze del cinema postmoderno e la deriva individuale/autoriale che ha assorbito. Un cult.
Questo nonostante la sua esclusione dagli Oscar del 2023, che è inspiegabile e lo sarà per sempre. Ma, d'altronde, capire come ragionano i membri dell'Academy è divenuto un esercizio degno del miglior esperto di paranormale. Andiamo ad argomentare.
Una filmografia di difficile lettura
Dunque, come già anticipato Park Chan-wook non entra nel mondo del cinema nella veste di regista, ma come critico cinematografico (non diciamo spettatore, appassionato e via dicendo perché ci pare francamente scontato). Si laurea infatti alla facoltà di filosofia dove tra l'altro incontra la futura moglie, una figura molto importante per la sua vita professionale oltre che privata, fonda con lei un cineclub e inizia a fare lo scribacchino per poi avvicinarsi ai set solo più avanti come aiuto.
I primi passi non vanno bene in termini di riscontro di pubblico, ma già si poteva notare la sua fermezza nell'approccio al lavoro: tutti i suoi lavori erano non solo girati, ma anche scritti da lui. Quello che mancava era forse una direzione, una visione lungimirante. Arriva quindi Joint Security Area (siamo arrivati al 2000 tondo tondo), che ha un successo enorme in patria, ma, guarda caso, è il suo primo lavoro adattato da un testo altrui. Ancora non ci siamo, ma il risultato ottenuto gli consente di rimettere mano ad una sua vecchia sceneggiatura, quella di Mr. Vendetta. L'incredibile riuscita della pellicola cambia tutto in lui, che da bravo autore ha anche costantemente bisogno di essere riconosciuto per chi è veramente.
Ogni cinefilo conosce la trilogia di Park, che prosegue con il già citato Old Boy, forse la miglior espressione del suo modo di immaginarsi nel mondo cinematografico, data l'originalità della sua visione (cominciamo a vedere i carrelli orizzontali, i piani sequenza ecc..), la sua incredibile capacità di scrittura e anche di rielaborazione del materiale originale (in questo caso il manga di Caribu Marley e Nobuaki Minegishi) e i suoi topoi narrativi. L'ultimo film della saga, Lady Vendetta, è di fatto il coronamento di un pensiero che si traduce sullo schermo con dei finali anche fotografati e colorati in un modo, si potrebbe dire, consequenziale.
I'm a Cyborg, But That's OK, Thirst e Stoker sono il trittico successivo alla trilogia e, nonostante una volontà tangibile di continuare ad esplorare le sue tematiche esistenziali, misurarsi con originalità e adattamento e proseguire nell'avventura alla ricerca del suo stile personale, ottengono il risultato di disorientare il pubblico riguardo l'evoluzione di un regista che non ha comunque perso il suo status di eccellenza. Gli interrogativi cominciano però a superare le certezze.
Le donne di Park Chan-wook: da Lady Vendetta a Decision to Leave
Essere un autore
Quando si guarda ad un nome come quello di Park Chan-Wook le preoccupazioni non sono quasi mai relative alle criticità legate ai singoli film, dato che questi sono creature di una mente in continuo cambiamento e che dunque nella lavorazione di ognuno di essi indaga su se stesso, sbaglia, inciampa, sperimenta. Uno come lui vive continuamente al limite dell'errore (se ci passate un'immagine di questo tipo) e regala comunque degli sprazzi di cinema invidiabili, di quello "vero", quello alto, quello che vuole cambiare il mezzo.
No, la preoccupazione reale è quella nell'individuare una direzione coerente, riuscire a vedere una trasformazione tangibile ed escludere il rischio di autofagocitamento che è anche quello più pericoloso per un creativo (stiamo cercando di non dire autore, notate?). La ricerca di una dimensione che non riesce più ad unire forma e contenuto, occhio e visione, ma che comincia a far prevalere il primo sul secondo, restringendo paradossalmente il campo da gioco, la portata del proprio operato. La ricerca della firma a qualunque costo, anche a scapito di se stessi, cercando la soluzione in delle acrobazie metatestuali che spesso sfociano nella tendenza a far smarrire lo spettatore per nascondere uno smarrimento, questo sì, solo dell'autore.
Un peccato, uno spreco, che però a volte può nascere come conseguenza temporanea di una ricerca più difficile del previsto, quella di un equilibrio che, se trovato, porta veramente a creare quella sintesi perfetta in grado di trasformare tutte le fatiche impiegate ad arrivare fino a là in un senso di riuscita.
Gli ultimi due film di Park sono Mademoiselle, del 2016, e Decision to leave, 2022. Uno lo rimette in carreggiata, l'altro, come indica anche il tempo intercorso con il precedente, lo riporta ai livelli più alti della sua carriera.
Decision to Leave: Park Chan-wook trasforma l'ossessione in amore (e viceversa)
Creare un cult
Ed eccoci quindi a lezione dal cineasta sudcoreano, ancora una volta. Il titolo è: "Come creare un istant classic, in grado di fondere la tendenza del cinema postmoderno e l'individualità creativa, anche detta autorialità".
Svolgimento: Decision to Leave è una pellicola di più di due ore che rielabora un immaginario cinematografico direttamente (e dichiaratamente) rimandante alla produzione hitchcockiana (La donna che visse due volte, che è anche il film preferito di Park, ma non solo quello), da cui riprende il modus operandi del noir, destrutturandolo e rielaborandolo in una chiave moderna e personalissima. Lo si vede dal modo in cui ripensa la struttura classica, rimodulata secondo un montaggio diegetico, inframezzata dai suoi flashback tipici e da soluzioni oniriche che permettono l'inserimento del melò, che poi è il genere reale (se vogliamo parlare in questi termini) della pellicola. C'è spazio per la sua ironia anche nel raccontare il tragico dei suoi personaggi, tagliati come sono tagliate le geometrie dei suoi ambienti e colorati come sono colorate le sue inquadrature, pieni di elementi in armonia e in contrasto.
Tutto ha un senso personale, ma allo stesso tempo logico in riferimento a storia e materiale di riferimento, dai cambi di fuoco sfruttando i riflessi negli specchi ai pasti coreografati e gli schiaffi teatrali. La stessa divisione in due blocchi, pensati per essere fruiti con diverse velocità, è una rielaborazione di scrittura, così come la continua riproposizione del paradosso di racconto che nel parlare di un'attrazione da due entità inconciliabili per natura trova il modo di legarle.
Decision to Leave è Park Chan-wook, la sua idea di cinema anche più ingenua e fanciullesca, sperimentale, ma consapevole, elegante, solida e comunque fragile, come i suoi due personaggi. La forza dei paradossi dell'uomo, della società, dei sentimenti e dei rapporti, resi leggibili sono nella misura in cui vengono racchiusi nello spazio cinematografico.